#3 Erica: fare comunicazione della scienza... a regola d'arte
Come si passa dal fare ricerca sulle particelle di carbonio negli oceani a occuparsi di arte e scienza? Ce lo racconta Erica Villa, protagonista dell'intervista di oggi
Erica Villa, biologa, lavora da vent’anni come comunicatrice scientifica e dal 2021 è consulente e curatrice indipendente di progetti e mostre di arte e scienza come fonte di nuovi contenuti creativi legati soprattutto a tematiche ambientali. Ha un ruolo chiave nella cura e nella comunicazione scientifica di progetti di ricerca, educazione e coinvolgimento del pubblico sulla fusione dei ghiacciai, sui fiumi da ripristinare e sulla laguna veneziana da preservare. È membro del comitato di gestione di ECHO - Science Communication Hub della Fondazione Università Ca' Foscari Venezia e del board di EFSJ - European Federation for Science Journalism.
Erica, parlami del percorso che ti ha portato a diventare comunicatrice della scienza. Decidi tu da dove e quando partire.
Comincerei dal tirocinio della tesi durante la mia laurea in biologia e oceanografia all’Università di Padova. Durante l’ultimo anno, ho avuto la possibilità di fare un Erasmus alla Stazione Zoologica di Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra. Un’esperienza che, più di ogni altra, mi ha mostrato cosa significa davvero “fare ricerca”.
Negli anni precedenti avevo già partecipato a diversi progetti, ma è in Francia ho avuto il primo vero assaggio della ricerca scientifica come lavoro quotidiano. Uscivamo in mare, certo, ma c’era anche tutta la parte di laboratorio: analisi, conteggi su vetrini, ordine e rigore assoluto. Lì mi sono scontrata con la realtà: mi sono accorta che quella dimensione non era proprio fatta per me. Quel tipo di lavoro richiede una precisione e una ripetitività che non sentivo mie.
Mentre studiavo le particelle di carbonio alla base delle mucillagini, poi, mi rendevo conto che dedicare una vita intera a un tema così specifico mi sarebbe stato stretto. In breve, ho capito che quella non era la mia strada.
Comunque sia, quell’esperienza è stata preziosa, perché ho anche iniziato a intuire cosa invece mi appassionava davvero.
Complice una mia propensione per le lingue, ero affascinata dai dialoghi con gli altri ricercatori: ragazzi e ragazze da tutto il mondo, ognuno specializzato in un campo specifico, con le proprie storie e le proprie passioni. Volevo sapere tutto, capire il loro lavoro, cosa li entusiasmava. In più, ho sempre avuto una certa facilità con la scrittura. Mi piace raccontare, spiegare, intessere relazioni tra idee e persone. Così, una volta laureata, ho deciso di provarci: sapevo dell’esistenza del Master in Comunicazione della Scienza della SISSA di Trieste, mi sono candidata e sono entrata, era il 2002. Da lì, è cominciato tutto.
Sapevi del master, quindi immagino conoscessi già il campo della comunicazione della scienza. Quando hai capito che esisteva una professione di questo tipo?
A dire la verità non ricordo con esattezza il momento in cui ho scoperto che esisteva questa professione. Potrei sbagliarmi, ma ho questo ricordo un po’ sfocato di un poster appeso in università. Forse era proprio quello del master alla SISSA. Mi ricordo che mi aveva incuriosita, che avevo pensato: “Sai che forse… quasi quasi…”, ma questo input non si era tradotto in nulla di concreto, almeno all’inizio. In realtà, ho cominciato a pensarci seriamente solo dopo l’esperienza in Francia. Fino a quel momento avevo sempre dato per scontato che sarei diventata una ricercatrice. Mi ero iscritta a Biologia con l'idea di fare ricerca sui tumori, poi nel tempo mi sono orientata verso la biologia marina e l’oceanografia. Diciamo che la mia rotta è cambiata più di una volta.
Quali sono le altre rotte che hai seguito e non proseguito?
Prima ancora della tesi in oceanografia, avevo ricevuto un’altra proposta di ricerca davvero importante: avrei potuto lavorare con Edoardo Boncinelli ed Enrico Bellone su un progetto dedicato alla memoria e alla coscienza. Mi avevano invitata al San Raffaele per un incontro e mi hanno portata in giro per i laboratori. Era tutto molto affascinante, ma anche impegnativo: si trattava di lavorare con modelli animali — topi, scimmie — e lì ho capito che non faceva per me. Ripensandoci oggi, credo che già quell’episodio dicesse qualcosa su di me, su quello che davvero cercavo.
Mettendolo insieme con l’esperienza della tesi, è diventato sempre più chiaro che non era tanto la ricerca in sé a motivarmi, quanto il desiderio di esplorare, di capire e di raccontare.
Non riuscivo a immaginarmi incanalata per tutta la vita su un unico argomento, per quanto affascinante. Quando ho deciso di orientarmi verso la comunicazione della scienza, è stata una scelta fatta sì per contrasto, ma anche con grande sollievo. E da allora non ho avuto dubbi come invece mi era successo in passato. Anzi, più andavo avanti, più sentivo di essere sulla strada giusta. Se volessi dirla tutta, azzarderei che tutto questo nasce, in fondo, da una passione enorme per la scienza e per la natura.
Puoi dirci di più di questa passione?
Forse quello che più mi affascina della scienza è proprio il fatto che non mi venga poi così facile. Io ho fatto il liceo linguistico, con le lingue giocavo in casa: ero brava, mi venivano naturali. Se avessi continuato su quella strada, probabilmente avrei proseguito serenamente, senza intoppi.
La scienza, invece, è sempre stata una sfida: il primo anno di biologia, con gli esami di fisica, matematica e chimica, è stato quasi uno shock. La scienza non è qualcosa in cui mi sento a mio agio senza sforzo, ma proprio per questo mi attrae. È come se, invece di scoraggiarmi, questa difficoltà mi spingesse ancora di più ad avvicinarmi. A capire. A scoprire. Quando ascolto ricercatori e ricercatrici parlare del loro lavoro, sento sempre la voglia di assorbire quanta più conoscenza che posso, di farmi raccontare, di capire come funziona il mondo attraverso i loro occhi.
Credo che a un certo punto mi sia detta: "Le lingue, bene o male, le conosco. Le ho studiate a lungo. E se provassi invece a imparare qualcosa che non so? Qualcosa che richiede uno sforzo, ma che è alla base di tutto, della vita e di ciò che ci circonda?"
Dopo il master di comunicazione della scienza cosa è successo?
Durante il primo anno ho trovato lavoro e mi sono trasferita a Roma per lavorare al Pensiero Scientifico Editore, una casa editrice specializzata in testi di medicina, sia divulgativi che accademici. Lì mi occupavo principalmente di ECM e ho partecipato al lancio della versione italiana di Yahoo! Health. È stata un’esperienza intensa: leggevamo tra i cinque e i dieci paper scientifici al giorno per poi scrivere altrettante news, rivolte sia a un pubblico di professionisti sanitari sia al grande pubblico. Il ritmo era serrato, ma incredibilmente formativo. L’esperienza al Pensiero Scientifico è stata per me una vera palestra, non solo di scrittura, ma anche di metodo e approccio a questa professione.
Dopo l’esperienza al Pensiero Scientifico, ho iniziato a lavorare al Centro Nazionale Trapianti. Lì ho cominciato a interfacciarmi più direttamente con il mondo medico. È stato un passaggio importante perché, per la prima volta, ho dovuto “negoziare” il mio ruolo di comunicatrice scientifica: far capire che poteva essere davvero utile avere qualcuno che traducesse i contenuti per diversi pubblici non era scontato. È stato un lavoro anche di posizionamento, oltre che di scrittura.
Poi ho avuto mio figlio e ho scelto di fermarmi per un po’. Tra la gravidanza e gli anni successivi, sono rimasta a casa per circa tre anni. Quando ho deciso di ricominciare a lavorare in questo settore, ero già tornata a vivere a Venezia e dopo due anni da freelance ho iniziato a lavorare a Ca’ Foscari, nel 2015. All’inizio ero al Dipartimento di Management, afferente alle facoltà di area economica dell’università, un ambito molto diverso da quello da cui venivo. Anche se si trattava comunque di ricerca, era una “scienza” lontana da quella che mi aveva appassionata negli anni precedenti.
Poi, dopo qualche tempo, è arrivata la svolta. Qualcuno mi ha parlato di un progetto in partenza: Science Gallery Venice, parte di un network internazionale che unisce scienza, arte e società e che conoscevo già da molti anni. Appena l’ho saputo ho pensato: “No, ma io devo lavorare per questa cosa qui”. E così è stato.
E poi quindi cosa è successo?
Dal 2016 collaboro con l’università (dal 2021 come freelance, dopo diversi anni da dipendente di Ca’ Foscari) e questa esperienza ha dato una spinta enorme alla passione per la comunicazione della scienza.
Oggi il mio lavoro non si limita più a raccontare la scienza e la ricerca, ma lo faccio attraverso linguaggi ibridi, progetti contaminati, in dialogo con artisti, designer, performer. È una modalità espressiva che trovo molto stimolante.
Venivo da un momento in cui il mio lavoro di comunicatrice scientifica stava diventando un po’ ripetitivo (sempre gli stessi articoli su studi, scoperte, paper). L’incontro con l’arte e scienza è stato un vero colpo di fulmine, e continua a esserlo. Non solo per la ricchezza dei linguaggi e dei contenuti, ma anche per la possibilità di osservare le relazioni tra le persone che provengono da mondi diversi: come si incontrano, come si capiscono (oppure fanno fatica a farlo), come cambiano nel tempo. È uno sguardo direi quasi sociologico — anche se non ho mai studiato sociologia — che mi coinvolge ogni giorno di più.
A proposito di relazioni: in questo percorso ci sono state persone o community particolarmente significative per te?
Partendo dall’inizio del mio percorso, l’esperienza del master alla SISSA è stata davvero trasformativa, soprattutto dal punto di vista umano: ho stretto amicizie che durano ancora oggi, e da lì sono nate anche relazioni professionali profonde, che poi ho avuto modo di esplorare nel corso del tempo. Dall’esperienza al Pensiero Scientifico, passando anche per quella al Centro Nazionale Trapianti e poi con l’Università di Venezia, mi sono interfacciata con tante persone, la cui esperienza personale e professionale mi ha sempre arricchito enormemente.
Da quando sono freelance, poi, ho scoperto quanto conti, per me, poter contare su relazioni umane che rendano il lavoro interessante e anche leggero, divertente. In questo senso, far parte di SWIM (l’associazione Science Writers in Italy, che raccoglie comunicatori della scienza e giornalisti scientifici nel nostro Paese) da ormai una decina d’anni è stato molto importante. È una comunità ricchissima, soprattutto tra le generazioni più giovani: c’è un’energia incredibile, fatta di scambio e di ascolto.
Ho imparato tanto da chi mi circonda, spesso molto più di quanto abbia imparato studiando. Questo, alla fine, è un lavoro che si impara facendolo, e facendolo insieme agli altri.
Ci stai parlando di una comunità di professionisti che sembra essere molto coesa. Come la descriveresti?
La comunicazione della scienza è una nicchia, e io sento di appartenere a mia volta a una sotto-nicchia, perché la mia non è solo “comunicazione della scienza” in senso puro e tradizionale. Certo, continuo a farla, ma il mio lavoro oggi è qualcosa che include anche l’arte, la creatività, la sperimentazione. Anche quando parlo con altri comunicatori scientifici, spesso mi percepiscono — e io stessa mi percepisco — come parte di un gruppo più piccolo all’interno della grande famiglia della comunicazione della scienza: quelli che si occupano di arte e scienza.
Comunque sia, è una comunità, quella di chi fa comunicazione, che vedo molto eterogenea, soprattutto per età, e per approcci, competenze, visioni.
Chi è nel settore da più tempo a volte fatica a stare al passo con i linguaggi, i progetti o le dinamiche dei più giovani, anche a livello tecnologico e comunicativo, non solo creativo. Ma è comunque un ambiente ricco di passione e di fermento, anche se non privo di difficoltà. Una delle principali, inutile negarlo, è quella economica: oggi è raro che si riesca a vivere scrivendo solo articoli o libri, o producendo contenuti. Per molti è necessario affiancare attività come la moderazione di eventi o la comunicazione di progetti europei, che comunque è una delle aree in cui vedo più opportunità e riconoscimento per chi lavora in questo settore.
Pensi che nel corso degli anni il ruolo del comunicatore della scienza sia cambiato?
Quando ho frequentato il master (e parliamo, come ho detto, di una ventina di anni fa), esistevano quattro indirizzi, quindi quattro diversi ambiti di azione attraverso cui fare comunicazione della scienza: i musei, l’editoria, il cinema e il giornalismo. Io, per molti anni, mi sono concentrata soprattutto su quest’ultimo, occupandomi quasi esclusivamente di scrittura di articoli. Poi, le cose sono cambiate, forse con l’arrivo dei social media, ma anche con una maggiore consapevolezza sul ruolo della comunicazione della scienza a livello istituzionale, all’interno delle università e degli enti di ricerca. Questo ha creato nuove esigenze e nuovi spazi nel mercato del lavoro.
Di conseguenza sono cambiate anche le competenze richieste a chi fa questo mestiere: magari, lavorando per la comunicazione istituzionale di un ente, devi occuparti anche di organizzazione eventi, oppure, qualsiasi cosa tu faccia in questo settore, è bene masticare le dinamiche della comunicazione via social.
Un po’ sembra una corsa continua per stare al passo con strumenti e linguaggi nuovi, e spesso si percepisce la necessità di una formazione più strutturata, che non sempre è possibile avere. Gli strumenti arrivano e, quasi subito, ci si aspetta che tu li sappia già usare.
Comunque sia, la buona notizia è che da quando ho iniziato a fare questo lavoro il ruolo di chi comunica la scienza è decisamente più riconosciuto che in passato: sempre più realtà, pubbliche o private, conoscono questa figura, sanno quello che fa e quanto sia importante.
Secondo te che cosa serve per essere una buona comunicatrice della scienza?
Ci sono alcune qualità che secondo me vanno al di là delle competenze tecniche: prima fra tutte, l’empatia. Bisogna saper entrare in relazione con le persone, saper ascoltare davvero, capire i contesti e i ruoli. Anche quello di chi comunica, che non è — o non dovrebbe essere — protagonista. Questo ruolo è prezioso, anzi fondamentale, ma proprio perché è relazionale richiede una consapevolezza del proprio posto dentro quella relazione.
Poi, oltre all’empatia, secondo me servono anche curiosità, flessibilità e passione. Queste, per me, sono le quattro parole chiave. Qualcosa si può imparare, certo — anche l’empatia forse, non lo so — ma credo che molte di queste siano qualità che si coltivano nel tempo, anche fuori dal lavoro. Io stessa mi sono resa conto, a un certo punto, che il motivo per cui non ho proseguito nella ricerca è che non avevo (o non avevo voglia di acquisire) le cosiddette hard skill. Ma ho capito che le soft skill che avevo — e che ho affinato negli anni — erano la mia vera forza. E oggi sono convinta che siano la base di una buona comunicazione scientifica.
Veniamo alle dolenti note, se ce ne sono. Hai incontrato particolari ostacoli o difficoltà nel tuo percorso?
Le difficoltà ci sono ovviamente, non è tutto rose e fiori, e spesso sono questioni intrecciate tra loro, al punto che faccio fatica a individuarne una in particolare.
Sicuramente, una delle più frequenti è quando, in contesti come le università, viene richiesto un multitasking estremo, che implica lo svolgimento di attività per cui non si ha una preparazione specifica.
Faccio un esempio: l’organizzazione di un evento. C’è chi lo fa per mestiere, da anni, con competenze molto precise che prescindono dalla comunicazione della scienza. Eppure, spesso mi è capitato di dovermi occupare anche di questo, pur non avendo mai ricevuto una formazione adeguata.
Questo è un limite non solo mio — perché ovviamente non si può sapere tutto — ma anche dei contesti lavorativi pubblici in cui mi sono trovata. La formazione sul posto di lavoro, soprattutto nelle università, è ancora troppo scarsa. Viene data molta importanza al contenuto scientifico, ma pochissima alla crescita professionale continua di chi ci lavora. È qualcosa che invece in contesti aziendali, almeno per quanto ho potuto vedere, viene considerata con più attenzione. Si impara “facendo”, spesso a tentoni.
Devo dire che molte delle difficoltà che ho incontrato in Italia si ripresentano, in forme simili, anche all’estero. Ho lavorato con partner in Francia, Spagna, Inghilterra, Irlanda, Finlandia, Grecia... e le dinamiche non cambiano molto: la questione economica è un nodo critico ovunque. Così come la tendenza a chiedere al comunicatore di essere un “tuttofare”: capace di scrivere, organizzare eventi, gestire i social, fare grafica, magari anche il video e il podcast…
Un altro aspetto complesso riguarda il rapporto con alcuni ricercatori, soprattutto quelli meno giovani. Quando ho iniziato a lavorare con i medici, ad esempio, ho dovuto un po’ farmi spazio coi gomiti: l’idea che un comunicatore potesse realmente contribuire al loro lavoro non era così scontata. E in certi casi, ancora oggi, capita. Ma molto meno di prima: credo che anche grazie alla diffusione capillare di queste figure — un comunicatore in ogni dipartimento, per esempio — si sia arrivati a riconoscerne il valore.