#9 Gaia, la sfida della chiarezza nella scrittura scientifica
Scrivere la scienza, vivere di scienza: conosciamo Gaia Donati, una fisica che oggi racconta il lavoro dei ricercatori
Dopo un dottorato in ottica quantistica a Oxford, Gaia Donati ha capito di non avere il “fuoco sacro” della ricerca e ha deciso di dedicarsi alla comunicazione scientifica, lavorando per le riviste Nature e Nature Photonics e per un’azienda specializzata in strumentazione scientifica avanzata. Oggi si occupa di comunicazione scientifica nel Dipartimento di Fisica del Politecnico di Zurigo (ETH) e aiuta i ricercatori a superare l’impostazione a volte opaca e autoreferenziale della comunicazione accademica, “ancora troppo orientata a rivendicare un risultato piuttosto che a condividere una scoperta”.
Su Substack, Gaia cura la newsletter Paltò, dove si occupa della sua terza passione dopo la fisica e la scrittura - le lingue.
Gaia, raccontami: quando inizia il tuo percorso nella comunicazione della scienza?
La mia prima vera esperienza è arrivata dopo la laurea specialistica in fisica, conseguita nel 2009 alla Sapienza di Roma. Mi incuriosiva l’idea di fare un dottorato di ricerca, perché pensavo che forse mi sarebbe piaciuto diventare una ricercatrice, ma mi trovavo in quello che all’estero chiamano gap year: la discussione della mia tesi non coincideva con l’inizio dei programmi di dottorato a cui guardavo – principalmente in Francia e Gran Bretagna – e che partivano l’anno successivo. Avevo quindi a disposizione alcuni mesi liberi da dover occupare in altro modo.
Il professor Paolo Mataloni, il mio relatore di tesi, sapendo che mi ero divertita a scriverla e avendo visto il buon risultato, mi disse: "Se ti piace la scrittura potresti considerare il giornalismo scientifico o di fare l’editor per le riviste di articoli di ricerca. Sai, alle conferenze li vedo, sembrano divertirsi".
Mi suggerì quindi di esplorare un po’ questo ambito. Dato che ero già interessata a fare un’esperienza all’estero, andai a Londra e partecipai all’open day dell’Imperial College per informarmi sul loro master in science communication. Ricordo ancora quando arrivai allo stand informativo. Una delle docenti, con grande onestà, mi disse: "Fai prima il dottorato di ricerca, poi ne riparliamo". Mi colpì molto questa risposta, anche perché andava contro i suoi stessi interessi. A quel punto l’idea del master è sfumata.
E in che modo hai occupato i mesi liberi che ti separavano dall’inizio del dottorato?
Uno dei docenti del dipartimento di fisica mi mise in contatto con una persona che lavorava per la rivista divulgativa online Galileo. Feci un po’ di esperienza con loro, lavorando alla loro sezione di news.
In pratica, per circa tre o quattro mesi il mio ruolo fu quello di ricevere testi, a volte solo brevi lanci delle agenzie stampa tipo ANSA, e trasformarli in articoli divulgativi, anch’essi molto brevi. La brevità fu sicuramente la sfida più grande. La mia tendenza iniziale era di fare tantissima ricerca: per scrivere di un argomento mi mettevo subito a cercare montagne di informazioni, ma poi comprimerle in un testo così corto diventava un’impresa.
Poi, verso aprile 2010, ricevetti la notizia di aver vinto una posizione di dottorato in fisica a Oxford e mi trasferii dopo l’estate.
Com’è andata l’esperienza con il dottorato? Come l’hai vissuta?
È stato molto impegnativo, anche perché nel mio caso è durato quasi 5 anni. Lì ho partecipato al programma STEM Ambassadors in quanto dottoranda del dipartimento di fisica. Si tratta di un programma nazionale che vuole avvicinare i bambini alle materie scientifiche, molto pratico e divertente ma non era la mia strada. Mi piaceva la curiosità dei bambini, ma mi sembrava di non riuscire a instaurare una vera connessione.
Quando ho cominciato a scrivere la tesi di dottorato c’è stata una svolta. Scrivere non era sempre facile, ma mi dava un tempo di riflessione che in laboratorio non c’era. Io con la fisica devo andare piano. Il mio relatore alla Sapienza diceva che ero un diesel: parto a rilento e poi vado a regime. In questo senso la scrittura era perfetta per me: raccogliere tante informazioni, farle decantare, trovare un filo. Quando ci riuscivo, era una soddisfazione che la ricerca non mi dava. E lì mi sono detta: forse la ricerca proprio non fa per me.
Del resto, osservando altri dottorandi mi rendevo conto di non avere quel "drive", quella spinta che richiede la ricerca. Potevo passare ore a sbattere la testa in laboratorio, ma mi pesava. Alcuni miei colleghi, invece, erano sostenuti da una passione estrema. Verso la fine del terzo anno di dottorato avevo già chiaro che avrei dovuto cercare qualcos’altro.
Come hai reagito a questa consapevolezza?
Per fortuna non mi ha messa in crisi: fare il dottorato era già un esperimento e l’ho sempre considerato tale. Per questo non ci sono rimasta troppo male.
Intorno al quarto anno di dottorato, mentre cominciavo a scrivere la tesi, ho partecipato a un concorso di scrittura organizzato da Nature Careers, una costola editoriale di Nature che si concentra su temi anche sociali legati al mondo della ricerca universitaria, come la salute mentale dei dottorandi o le strategie per affrontare un colloquio di lavoro. I vincitori del concorso avrebbero potuto partecipare a una conferenza o un evento in quanto ‘inviati speciali’, giocando a fare i reporter per un giorno e vedendo pubblicati i loro articoli sul blog di Nature Careers.
La prima volta è andata male, ma ho riprovato l’anno successivo con un’iniziativa simile e con mia enorme sorpresa sono stata selezionata insieme ad altri tre o quattro ricercatori. Sono andata a Londra per un evento dedicato a dottorandi e giovani scienziati, con tante discussioni legate alle cosiddette soft skills. È stato un evento molto utile perché ho capito che con una formazione scientifica si possono fare tantissime cose diverse. Non devi per forza fare il ricercatore: puoi diventare lab manager o occuparti di policy, per dire. A seguito di questa esperienza mi sono ritrovata con un paio di pezzi brevi pubblicati su quel blog, niente di che ma comunque una grande soddisfazione.
Nel mio gruppo di ricerca c’era stata anche l’opportunità di contribuire a una recensione di un libro di saggistica scientifica per la rivista Science, e quella è stata davvero un’esperienza eccezionale. Mi hanno chiesto di recensire un libro di matematica che ho adorato. L’editor incaricato della sezione libri mi ha fatto un editing che ancora oggi considero uno dei migliori che abbia mai ricevuto. Ogni volta che interveniva sul testo aggiungeva un commento per spiegarmi la ragione di quella modifica, quindi sono riuscita a fare una specie di reverse engineering sui suoi interventi e ho imparato un sacco. Col tempo ho scoperto che non tutti gli editori adottano questo approccio, ma in quel momento ho pensato: “Che bella questa professione, contigua alla scienza ma con un tono umano, dove puoi parlare e scambiare idee con persone interessanti”.
Cosa succede dopo il dottorato? È stato facile trovare lavoro?
Durante il dottorato avevo conosciuto il mio compagno. Finito il nostro percorso di studi a Oxford, lui ha trovato un impiego vicino a Londra. A nessuno dei due piaceva l’idea di una relazione a distanza, quindi sono rimasta in Inghilterra e ho provato la strada da freelance, scrivendo un po’ qua e là.
Avevo anche cominciato a conoscere l’ambiente anglofono degli scrittori scientifici, soprattutto nella zona di Oxford e Londra, e nel mio piccolo stavo iniziando a costruirmi un network. Per esempio, in Gran Bretagna c’è la Association of British Science Writers, un’organizzazione molto attiva e uno di quei posti dove puoi fare rete. L’esperienza da freelance è durata circa sei mesi, un periodo in cui ho anche fatto parecchi colloqui di lavoro. Durante i colloqui mi è successo di sentirmi dire che serviva un taglio più giornalistico, e che si vedeva che non avevo studiato per quello. Mi sono resa conto che il mio dottorato in fisica, per quanto formativo, mi aveva “deviata” verso il dettaglio, mentre per alcuni ruoli nell’ambito della comunicazione serviva un approccio più sintetico o comunque pragmatico.
In quel periodo restavo convinta che le riviste scientifiche come Nature, che ha una sede a Londra, fossero il posto giusto per me: per alcuni dei loro ruoli editoriali cercavano spesso candidati con un dottorato, persone che erano state a contatto diretto con la ricerca scientifica ma che volevano un mestiere un po’ “spostato lateralmente” rispetto a quello del ricercatore. Il problema era che dovevo aspettare posizioni legate alla fisica, quindi è stato anche un po’ un gioco di pazienza.
Dopo qualche tentativo ho ottenuto un contratto di maternità di sei mesi, poi diventati un anno, con la rivista Nature Photonics, una pubblicazione più specializzata rispetto a Nature, perfetta per me, visto il mio dottorato in ottica quantistica. Mi occupavo di selezionare gli articoli di ricerca da mandare ai referees, imparavo a dire di no (le famigerate rejections) e a gestire il processo di peer review, una grande responsabilità ma anche un’estrema soddisfazione quando seguivo la pubblicazione di ricerche valide.
Quando la collega che sostituivo è rientrata dalla maternità, non sono riuscita a trovare altro con Springer Nature, nonostante il mio chief editor avesse cercato di segnalarmi tutte le possibilità per restare in casa editrice. E così di nuovo altri sei mesi da freelance. Quella volta però è andata meglio, ho avuto più lavori pagati. Nel frattempo continuavo a fare colloqui di lavoro, tendenzialmente per posizioni simili ma in altre case editrici.
Non hai mai pensato di rimanere freelance?
Per un momento sì, ci ho pensato. Dal punto di vista professionale vedevo i vantaggi, per esempio poter scegliere i progetti su cui lavorare. Però credo di aver escluso quasi inconsciamente questa strada perché non sono brava a separare lavoro e vita privata e non sono una persona molto socievole, per cui temevo l’isolamento. Un ufficio e dei colleghi mi servono a tirarmi fuori dal mio bozzolo di letture e riflessioni. Insomma, avevo il forte sospetto di non essere tagliata per la vita da lavoratrice autonoma.
Poi quell’estate, mentre ero freelance, è venuto fuori un posto di lavoro a Nature: cercavano un editor per la fisica. Ho pensato: “Questo lavoro deve essere mio.” La selezione è stata dura, ma alla fine mi ho ottenuto il posto, e questa volta si trattava di un contratto permanente!
Era un ottimo lavoro, avevo colleghi in gamba, potevo costruire una rete di contatti ampliata, c’era davvero tanto da imparare. Nature ha una particolarità: è l’unica rivista settimanale del portfolio di Nature Research e ha un team giornalistico a parte. Ho imparato molto anche osservando come lavorava quel team.
Però lo stress era notevole, e io sentivo una responsabilità enorme: dovevamo garantire la qualità più elevata per il nostro servizio editoriale, c’erano autori molto esigenti e a volte i toni delle conversazioni o degli scambi mail si alzavano. Sono rimasta lì dal 2017 fino alla fine del 2019, due anni pieni di alti e bassi in cui ho anche viaggiato molto per conferenze e visite a laboratori di ricerca. Ho visto posti incredibili, come Virgo, il LENS e la SISSA di Trieste; alla SISSA ho tenuto anche un seminario sull’editoria scientifica e l’open access.
C’era un problema però: gli effetti della Brexit, annunciata nel 2017, iniziavano a farsi sentire. Poi, all’inizio del 2019, al mio compagno è stata offerta la possibilità di trasferirsi a Zurigo per l’azienda per cui lavorava.
Hai detto che non volevate una storia a distanza, quindi immagino che tu lo abbia seguito…
Esatto. Inoltre lui è tedesco, io italiana, quindi l’idea di avvicinarci a casa e lasciare Londra, che ci sembrava caotica e poco adatta a mettere su famiglia, ci attirava molto. Con la Brexit io sentivo che l’atmosfera si stava facendo meno accogliente.
Ho provato a capire se potevo continuare a lavorare da remoto, ma era difficile e c’erano anche questioni legali e di sicurezza legate al lavoro con dati riservati. Ho capito presto che avrei dovuto dimettermi.
È stato un colpo, soprattutto perché avevo faticato molto per ottenere quel lavoro e non avevo una prospettiva chiara su cosa avrei fatto a Zurigo. Poi un giorno, mentre ero a Londra a una conferenza sulle tecnologie quantistiche, mi sono ritrovata a parlare con una persona allo stand di Zurich Instruments, una spin-off del Politecnico di Zurigo che produce strumentazione scientifica avanzata. Un settore per me sconosciuto: durante il dottorato avevo lavorato in un laboratorio piuttosto low-tech, e non avevo esperienza né con strumenti del genere né con la programmazione.
Credo di essere arrivata in un momento fortunato. L’azienda stava pianificando il lancio di un nuovo sito web e si era resa conto di avere molti buoni contenuti che andavano valorizzati. Serviva qualcuno per i contenuti editoriali (sito web, newsletter, white papers) e il direttore del marketing, che come me aveva studiato fisica, era interessato a inserire una figura con una sensibilità editoriale e un background scientifico.
Dopo un paio di colloqui mi hanno offerto un contratto di sei mesi. La posizione era stata creata apposta per me e questo, va detto, è stato un privilegio: non tutte le aziende hanno il budget o la visione a lungo termine per fare un tentativo simile!
Dopo i sei mesi mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato. Questa esperienza mi ha aiutato a superare una visione un po’ snob del marketing, che pensavo fosse solo una forma di pubblicità spinta. Invece ho scoperto che esistono approcci più autentici, che puntano a informare e costruire relazioni vere con il pubblico. Chi viene dal mondo della ricerca scientifica (soprattutto universitaria) spesso vede la conoscenza come qualcosa di “puro”, avulso da dinamiche commerciali. Ma anche scrivere una proposta per un grant europeo richiede, in fondo, di “vendere” un’idea.
Ho imparato che il marketing fatto bene può davvero aggiungere valore, e che comunicare con efficacia e generare conoscenza sono due cose che a volte si potenziano a vicenda.
E poi cosa è successo?
Dopo quasi tre anni a Zurich Instruments ho iniziato a chiedermi: voglio restare qui?
Mi sono accorta che mi mancava un contatto un po’ più frequente con i ricercatori, che mi dispiaceva non essere aggiornata su quello che succedeva nella ricerca in fisica; l’approfondimento tipico della comunicazione scientifica di cui mi ero occupata in precedenza non era più così richiesto.
Soprattutto, scrivevo meno e la cosa iniziava a pesarmi. Ho cominciato a guardarmi un po’ intorno, anche perché non conoscevo benissimo il mercato del lavoro svizzero e sapevo che non potevo considerare posti di lavoro dove fosse necessario un ottimo livello di conoscenza del tedesco.
Quando mio figlio aveva otto o nove mesi, ho visto un annuncio per una posizione al Politecnico di Zurigo, nel loro dipartimento di fisica. Cercavano una persona per le attività di comunicazione, ma la descrizione della posizione non chiariva bene che profilo cercassero. Non ero in emergenza, un lavoro ce l’avevo, quindi mi sono detta: ci provo.
Mi hanno chiamata per un colloquio e mi hanno offerto il posto quasi subito, dandomi qualche giorno di tempo per pensarci. Quei giorni sono stati intensi: allattavo e riflettevo sul da farsi. Mio figlio era ancora piccolo, io ero tornata al lavoro part-time e mi chiedevo se fosse il momento giusto per un cambiamento. Non è stata una scelta semplice: Zurich Instruments era un bell’ambiente con tanti colleghi da tutto il mondo. Accettando il lavoro al Politecnico sarei passata dal privato al pubblico e inoltre mi sarei trovata in un contesto un po’ più “svizzero”. Per fortuna mi avevano detto che avrei potuto continuare a lavorare part-time - quella per me era una condizione irrinunciabile. Alla fine ho dato le dimissioni da Zurich Instruments e, dopo un breve stacco, ho iniziato all’ETH di Zurigo.
Ora il mio ruolo ufficiale è “specialista di comunicazione”, anche se questo titolo lascia un po’ il tempo che trova.
Di che cosa ti occupi esattamente?
Uno dei miei compiti principali è scrivere articoli di news sulle ricerche pubblicate dai membri del dipartimento, rivolti principalmente a un pubblico di ricercatori in fisica e destinati al sito del dipartimento.
Insieme ai miei due colleghi, siamo spesso il primo punto di contatto per i ricercatori: raccontare le loro attività e intervistarli è una parte del mio lavoro che adoro. Mi occupo anche del sito web, curandone aggiornamenti, manutenzione e, attualmente, una riorganizzazione per migliorarne l’accessibilità. A volte supporto eventi aperti al pubblico come visite scolastiche o giornate di porte aperte.
Il nostro team collabora con l’ufficio comunicazione centrale del Politecnico, che segue le attività di tutti i dipartimenti. Li informiamo, ad esempio, su ricerche potenzialmente rilevanti per un pubblico più ampio, e lavoriamo insieme per definire le modalità di comunicazione più adatte.
Considerando la ricchezza e la varietà del tuo percorso, hai mai avuto difficoltà a spiegare agli altri che lavoro fai?
Non ho mai avuto grandi difficoltà a spiegare che lavoro faccio. E lo dico con un po’ di sorpresa, perché è una cosa che ho notato in molte delle interviste che avete pubblicato finora — tipo quella collega che diceva di lavorare da Zara [Claudia Bianchi, ndr]!
Posso sempre esordire con una frase del tipo: “Lavoro al dipartimento di fisica del Politecnico di Zurigo.” E, volendo, mi potrei anche fermare lì — ma di solito preferisco chiarire subito: “No, non sono una ricercatrice, mi occupo di comunicazione.”
La faccenda era più complicata quando dovevo spiegare cosa fa un editor in una rivista di ricerca scientifica. Soprattutto se l’interlocutore non ha familiarità con il mondo della ricerca, spiegare il ruolo di riviste come Nature e di chi ci lavora non è immediato.
Dopo la laurea hai vissuto nel Regno Unito e ora in Svizzera: sei riuscita a entrare in una “comunità” di comunicatori della scienza? Ci sono delle differenze all’estero rispetto all’Italia?
Dopo essermi trasferita all’estero, ho perso il contatto con la comunicazione scientifica italiana e quindi per me fare confronti è difficile - è una cosa che mi rattrista un po’ ma è andata così. Ora che vivo in Svizzera la barriera linguistica del tedesco gioca un ruolo pesante, nel senso che spesso non mi sento abbastanza sicura per partecipare ad alcune iniziative di comunicazione scientifica e quindi mi sento un po’ tagliata fuori rispetto ai miei anni inglesi. Tra l’altro qui non faccio parte di nessuna associazione di comunicatori, il che non mi aiuta a fare rete.
In questo momento mi viene da dire che sono un po’ in una bolla. Quando lavoravo da freelance ero molto meno isolata. È un paradosso: adesso parlo con tantissime persone in varie occasioni di scambio, ma mi manca una rete professionale di persone con ruoli analoghi al mio. Ho l’impressione che chi lavora nel giornalismo scientifico o in alcuni ruoli di divulgazione legati a grandi strutture (vedi il CERN, per dire) abbia capito l’importanza del networking, mentre chi, come me, si occupa di comunicazione scientifica nei dipartimenti universitari resti un po’ a margine.
Qual è, oggi, la tua “missione” da comunicatrice della scienza?
Negli ultimi tempi ho sentito il bisogno di affiancare al mio lavoro attuale una nuova dimensione: l’insegnamento della scrittura scientifica. Mi sono resa conto che poteva essere un valore aggiunto da offrire al mio dipartimento, e allo stesso tempo un modo per tornare a fare rete.
In fondo credo di non aver mai perso la mentalità dell’editor. Avevo bisogno di un contenitore dove riversare ciò che ho imparato nel tempo — competenze, abitudini di lettura, riflessioni. Così ho cominciato a proporre piccoli corsi di scrittura scientifica per dottorandi, interventi mirati, costruiti attorno ai bisogni specifici di singoli gruppi di ricerca. Mi mandano i loro articoli in fase di scrittura, per esempio, io me li studio e preparo un percorso su misura: consigli, osservazioni, domande. È una via di mezzo tra consulenza e coaching — anche se “coaching” non è un termine che sento mio.
La risposta è stata molto positiva. Nel mio piccolo, sento di poter fare qualcosa di utile. Il punto è questo: spesso si scrive per pubblicare, non per comunicare. Mi capita di leggere articoli di ricerca pieni di frasi contorte, opachi, dove si capisce solo che qualcuno ha ottenuto dei risultati e vuole piantare una bandierina, tipo Risiko: “Abbiamo pubblicato su questa rivista.” Invece l’obiettivo dovrebbe essere un altro: far sapere agli altri cosa si è scoperto.
È da lì che è nata questa mia missione: aiutare i giovani ricercatori a scrivere in modo più consapevole, più chiaro, con l’idea che l’articolo non sia un esercizio burocratico ma un atto di comunicazione autentica.
Uno dei momenti di maggiore consapevolezza l’ho avuto qualche anno fa, durante un lavoro da freelance. Stavo rileggendo un vecchio articolo di Marie Curie, una prosa semplicissima, niente fronzoli, niente storytelling, solo una sequenza chiara di ciò che aveva fatto, errori inclusi, fino ai risultati ottenuti. Un contrasto enorme con alcuni articoli moderni, a volte impenetrabili. Quell’essenzialità mi ha colpito. Forse oggi la comunicazione scientifica si è arricchita sotto certi aspetti, ma ha anche perso qualcosa in trasparenza e semplicità.
Sto anche cercando di capire se là fuori esistono reti di persone con interessi simili: professionisti che, come me, si occupano di scrittura scientifica in un modo trasversale, magari arrivando da esperienze diverse. In Italia, per ora, ho visto poco, ma non è da molto che cerco informazioni seriamente. Un’iniziativa che mi ha fatto molto piacere è stata una presentazione sulla scrittura e l’editoria scientifica che ho tenuto proprio alla Sapienza alla fine del 2023: alcuni dottorandi in fisica mi hanno contattata chiedendomi se volessi partecipare a un loro evento, e io ho accettato subito perché era proprio la direzione che stavo prendendo e mi piaceva anche l’idea di tornare alla ‘mia’ università.
L’obiettivo è diventare più metodica, capire che cosa si muove, dove sono le reti e le opportunità di scambio. Non so ancora dove mi porterà questo nuovo percorso, ma sono curiosa di scoprirlo.