#6 Enrico: unire i puntini della comunicazione della scienza
Dietro le quinte, ma unendo i puntini, Enrico Costa ci racconta una storia di competenze trasversali, all’interno (ma anche all’esterno) di un contesto istituzionale.
Enrico Costa si occupa di media relations presso l’Università Ca’ Foscari Venezia, un po’ giornalista, un po’ service designer, un po’ facilitatore di comunicazione. La sua storia è quella di una persona che si muove tra ricercatori e professionisti esperti in diverse discipline, con la curiosità e il desiderio di dialogo di chi si sente “jack of all trades, master of none”.
Allora Enrico, qual è la tua storia? Raccontaci come sei diventato un comunicatore della scienza.
Allora, iniziamo dalle cose che hanno più a che fare con la science communication, perché il mio percorso è cominciato da tutt’altro: ho studiato comunicazione e giornalismo ma non mi sono occupato da subito di scienza, ho cominciato nella redazione di un giornale locale dove scrivevo di un po’ di tutto, politica, giudiziaria, sport, cultura, qualsiasi cosa. Il primo contatto con questo mondo l’ho avuto nel 2012 quando decisi di iscrivermi da uditore a due corsi di un master in giornalismo digitale alla SISSA di Trieste. Era uno spin-off del celebre master in comunicazione della scienza, credo sia stato fatto solo per qualche anno. In quel master ho seguito uno dei primissimi corsi in Data Journalism tenuto da Elisabetta Tola e un corso di comunicazione ambientale tenuto da Giancarlo Sturloni. Abitavo a Conegliano all'epoca e andavo a Trieste solo per le ore di lezione: è stata una cosa stranissima, perché io già lavoravo e mi ritagliavo questo tempo un paio di volte al mese per andare a Trieste, partivo in macchina sull'autostrada... una lezione o due... e poi viaggio di ritorno. Ed era strano anche perché credo di essere stato l’unico uditore del corso, purtroppo questo non mi ha permesso di vivere l'atmosfera della classe, del master, a tutti gli effetti. Però mi interessava il Data Journalism, mi interessava la comunicazione ambientale, anche se non avevo delle necessità applicative immediate.
Uno degli aspetti che mi ha sempre caratterizzato, infatti, è quello di continuare a studiare, anche per cose che non stavo facendo al momento, ma cercando di costruire una professionalità trasversale. Forse all'epoca avevo ancora qualche ambizione di poter rientrare nel mondo del giornalismo in qualche modo.
Che lavoro facevi all’epoca?
Dal 2008 al 2011 ho lavorato nella comunicazione di una società sportiva, una squadra di pallavolo femminile in serie A1. Ero socio in una agenzia di Belluno in cui ci occupavamo di fotografia giornalistica e ufficio stampa. Iniziai ad occuparmi di una seconda squadra. Quando la squadra principale fu promossa nella massima serie, mi proposero una collaborazione a tempo pieno: la prospettiva nel giornalismo locale non era rosea, ho visto l'opportunità di fare una cosa diversa e mi ci sono tuffato. È stato interessante perché a prescindere dalla tematica comunque si trattava di fare interviste, comunicazione, ho imparato a fare video, a smanettare con i software, a fare un sacco di cose che altrimenti non avrei fatto. Parallelamente però continuavo a gestire l'ufficio stampa e a formarmi per un mestiere che ancora non sapevo quale sarebbe stato. Nel 2011 lasciai la pallavolo, ma rimasi a Conegliano portando avanti agenzia e vari uffici stampa.
Ora capisco meglio il contesto – di formazione, curiosità e crescita personale - in cui ti sei avvicinato alla comunicazione della scienza: ma da dove nasceva l'interesse proprio per questi temi, il Data Journalism e la comunicazione ambientale?
Io, di mio, con i numeri non ho mai avuto un buon rapporto, anzi a ben vedere forse non ho mai avuto un buon rapporto con il mio docente del liceo, ma nel concreto non è mai stata una materia in cui andavo bene. Il Data Journalism però mi sembrava un elemento di novità e allo stesso tempo qualcosa che riportava ai fondamentali il ruolo del giornalista: una realtà complessa da interpretare ma a partire dalla concretezza dei dati. Storie da raccontare, ma basandosi su evidenze.
E poi era il 2010, gli anni in cui iniziava il fermento intorno al Data Journalism, soprattutto a livello internazionale. Avevo colto questa nuova tendenza che mi interessava molto. Ho aggiunto la comunicazione ambientale perché non ne conoscevo i contorni, ma da giornalista di cronaca locale avevo scritto di temi ambientali legati all'uso dell'acqua, all'inquinamento, al clima. Oltre agli strumenti volevo iniziare a rafforzare una competenza tematica.
Nel settembre 2012, poi, chiusa l’esperienza della società sportiva, l’agenzia e i corsi alla SISSA, ho lasciato Conegliano: mia moglie aveva avuto l’occasione di una borsa di ricerca per un anno a Boston e andai con lei. Continuai a seguire corsi anche lì, alla Harvard Extension School, corsi di video editing e di Geographic Communication, ho fondamentalmente imparato a fare mappe. Una mia passione personale, ma anche un naturale proseguimento della data visualization e del data journalism. Poi quando è stato il momento di rientrare in Italia, le opzioni erano Milano e Venezia e iniziai a mandare curriculum un po' dappertutto.
E cosa hai trovato in Italia?
Inizialmente pensavo di dover rientrare su Milano perché offriva più possibilità nel mio settore e poi una casualità ha voluto che la Fondazione dell’Università Ca’ Foscari di Venezia proprio in quel momento stesse cercando due giornalisti, li aveva anche trovati, però uno non era in regola dal punto di vista dei documenti. E la mia candidatura arrivò al momento giusto: così nel 2013 entrai di fatto nell'Ufficio Comunicazione dell'Università, e poi, nel corso degli anni, mi sono stabilizzato attraverso i concorsi.
Com’era la situazione all’interno dell’Università?
Fin da subito mi resi conto che la comunicazione della ricerca non era un ambito chiaramente definito. Si facevano attività di ufficio stampa, di comunicazione istituzionale, si facevano anche belle notizie sulle ricerche, ma non era identificata come comunicazione della ricerca, non c’era una proattività verso questo genere di comunicazione. Mi resi conto che era una necessità che doveva essere un po' più riconosciuta. Ne parlai con il mio responsabile: mi disse va bene, occupatene tu.
In effetti, mentre ero ancora a Boston, ma si era già aperta questa possibilità di lavorare all’Università, ne avevo approfittato per parlare con chi faceva la comunicazione in una School di Harvard, con i miei futuri “colleghi”. Mi raccontarono alcune cose che facevano e vedevo che tutto era molto focalizzato sull'expertise dei docenti, dei ricercatori, il contatto con i media, le loro storie da raccontare, le loro ricerche, quindi quando arrivai a Venezia notai un po' questo scarto.
Così iniziai a intervistare ricercatrici e ricercatori e scoprii un sacco di cose interessanti. Una cosa che avevo notato, e che vale ancora oggi, è che quando fai comunicazione in una grossa istituzione, con tante persone che fanno ricerca e che potenzialmente ti possono offrire contenuti, per quanto sforzo tu possa fare, finisci per occuparti sempre di un ristretto numero di persone, di quelle persone che sono più proattive o di quelle con cui si costruisce una relazione più stretta. Allora quello che feci all'epoca fu iniziare a intervistare proprio quelle persone che erano fuori dai radar, ed è stato molto utile, lo consiglierei insomma anche a colleghi che lavorano nell'università: andare sempre oltre il network già consolidato. Non è facile, perché quando devi cercare notizie, o ti arrivano, oppure se le cerchi, è probabile che cerchi dove sai già di trovarle.
Un ricercatore che non conosci, che si occupa di un tema che magari non è così di tendenza, perché dovresti andare a stuzzicarlo se hai già comunque altro di cui occuparti? Io, con la scusa che ero appena arrivato, avevo un po' più di margine di manovra per andare un po’ al di fuori della routine ordinaria, e questo è stato, secondo me, importante.
Per guadagnarmi questa libertà di movimento, ho creato un format di interviste non legate alle notizie, ma focalizzato sul racconto delle attività di ricerca. Poi magari, mi portavo a casa anche il fatto che stava per uscire una pubblicazione, c'erano dei progetti in corso e quindi, diciamo, delle potenziali notizie future.
Ma il fatto di avere un format in cui non è necessariamente richiesto la notizia del giorno, un collegamento con l'attualità, ti rende molto più libero di avere questo primo incontro conoscitivo, in cui scopri qualcosa di nuovo perché quel ricercatore era una persona che non era mai stata sentita, non era visibile all'interno dell'università. Certo non ti viene fuori subito il comunicato stampa, ma metti le basi perché questo possa avvenire in futuro.
Da dove veniva questa tua volontà, questo desiderio di uscire dai radar della notiziabilità per andare a intercettare quelle persone? C'era qualcosa che ti appartiene nel profondo in questo approccio?
Senz'altro una curiosità, una curiosità di conoscere cosa c'era dentro questa istituzione, tra questo migliaio di persone tra professori, post-doc, dottorandi, che tutti i giorni sono lì a fare ricerca.
Avevo anche l'idea che fosse importante far conoscere queste storie, verso l'esterno ma prima ancora, all'interno dell’Università, perché spesso quello che succede in queste organizzazioni è che non ci si conosce, anche persone che lavorano su temi simili, ma da punti di vista diversi, non sanno l'esistenza l’uno dell'altro, perché magari sono in dipartimenti diversi. Con la comunicazione interna puoi creare opportunità di incontro e di collaborazione.
E lo stesso vale anche per la comunicazione verso l'esterno: ho incontrato professori di biblioteconomia e relazioni internazionali come anche di fisica. Ecco, una cosa che mi ha sempre guidato è l'assunto che faccio comunicazione della ricerca di qualsiasi disciplina. Hanno metodi, approcci, finalità, impatti e caratteristiche diverse, ma dal mio punto di vista è tutto meritevole di essere raccontato perché si tratta di persone che dedicano la loro vita a studiare un determinato tema e tutte sono interessanti, a loro modo.
Da parte dei ricercatori ho sempre trovato grande disponibilità. Nel momento in cui percepiscono che c'è un reale interesse e che non è tempo perso, il tempo lo trovano.
Quindi non ti sei mai specializzato in una disciplina specifica, hai sempre mantenuto questa trasversalità...
Esatto, sono ugualmente ignorante di tutte le discipline. Quello che dicevo sempre ai ricercatori durante le interviste è: spiegatelo a me, se lo capisco io, lo capirà chiunque.
Piano piano questo modo di approcciarsi alla comunicazione della ricerca è diventato un qualcosa di più riconosciuto anche tra noi colleghi e in modo molto naturale abbiamo iniziato a dividerci i dipartimenti, in base ai contatti. Io mi sono occupato un po' di più della parte economica, ambientale, scientifica, senza forzature né particolari vincoli, però è andata così.
Come siete organizzati come gruppo di comunicazione in Università? Come lavorate insieme?
L'ufficio è cambiato tantissimo da quando ho iniziato nel 2013: eravamo in sei, più un paio di colleghe all'ufficio relazioni con il pubblico, che gestivano anche Facebook. Oggi siamo una quindicina, anche di più, contando servizio civile e stage. Di fatto la squadra è quasi triplicata in dieci anni e questo ha comportato la necessità di organizzarsi. Io faccio parte del settore Media Relations, che abbiamo creato nel 2020, e poi ci sono settori per comunicazione online, video, grafica e social media management. Una volta a settimana organizziamo una riunione per discutere su quello che c'è in uscita e su come distribuirlo e trattarlo nei vari canali.
Pensi che questo tipo di esperienza dell'Università di Venezia sia comune alle altre università italiane? Ci sono uffici comunicazione così strutturati in genere?
Ci sono uffici più strutturati, ci sono uffici meno strutturati e anche molto meno strutturati. Non saprei quale sia la media. Sono più coinvolto con network e comunità in Europa, dove una situazione come la nostra è la normalità. Per quanto riguarda la comunicazione della ricerca scientifica, spesso ci sono delle unità specifiche specializzate.
Infatti, una cosa che mi ha sempre colpito, è che quando mi è capitato di fare dei concorsi per l’ufficio comunicazione in altre università – e li facevo anche un po' per vedere come erano questi concorsi - non ho mai incontrato dei candidati che venissero dai master di comunicazione della scienza. Parlo di 5-6 anni fa, magari ora è cambiato, ma ho la sensazione che il lavoro all’interno delle università sia un po’ sottovalutato dai comunicatori della scienza, forse le istituzioni sono percepite come ingessate, magari si preferisce l’autonomia del freelancer, oppure c’è l’ambizione di una retribuzione più vantaggiosa. Non ho numeri alla mano ma immagino che, come anche per i ricercatori, i comunicatori della scienza abbiamo stipendi migliori all’estero rispetto all’Italia. Posso capirlo, ma secondo me c'è anche un grande bisogno che questi mondi entrino più in contatto.
In sintesi, sei un giornalista che si è trovato a lavorare nell’ufficio comunicazione dell’Università, dove hai portato la comunicazione della ricerca, come l’avevi vista a Boston. Cos’altro hai fatto per completare questa tua evoluzione in comunicatore della scienza?
Appena tornato dagli Stati Uniti, una delle prime cose che feci fu entrare in SWIM Science Writers in Milan in Italy, una delle associazioni di giornalisti scientifici e comunicatori della scienza, e poi sono andato a Strambino per Folle di Scienza, esperienze di grande valore. Sentivo il bisogno di capire, di conoscere quali erano i temi in discussione, i punti di vista, i problemi, le tendenze. Sono stato anche a Erice due volte, alla Scuola Internazionale di Giornalismo Scientifico, perché per me era comunque un mondo nuovo, no? Quindi ho detto, beh, entro in un mondo nuovo, devo bussare e capire chi c'è nella stanza e come funziona. Ed è stato utilissimo: intanto conoscere tanti giornalisti mi permetteva di avere dei contatti per le diverse attività che volevo sperimentare. E poi mi ha permesso di capire cosa i giornalisti si aspettavano dall'università. Scoprire che, per esempio, erano critici nei confronti dell'università perché, spesso, non ricevevano risposte alle loro richieste di informazioni, ci vedevano come dei gatekeeper non sempre disponibili. Ascoltando le loro esigenze ho imparato a lavorare in un modo che fosse utile e collaborativo.
In questa esplorazione sia del network dei comunicatori della scienza, sia all'interno del tuo ambiente lavorativo, hai incontrato qualche persona che è stata particolarmente rilevante per te, per la tua vita professionale?
Non posso non nominare Elisabetta Tola perché è stata la mia prima docente in questo ambito, ma dovrei nominare anche tutti i membri di SWIM. Hanno avuto un ruolo di mentori, mi hanno permesso di avvicinarmi e comprendere questo mondo. Da loro ho appreso anche competenze tecniche: Elisabetta è sempre stato un po' un punto di riferimento per quanto riguarda le modalità, i mezzi, gli strumenti, i format e per la dimensione internazionale. Grazie all’associazione, dovrei ringraziare chiunque incontrato dentro SWIM, grazie a loro ho un po' scoperto tutto il versante anche etico e deontologico, soprattutto su tematiche di salute sulle quali non avevo una diretta competenza nella mia università, ma che possono definire degli standard e sollevare delle questioni fondamentali per la comunicazione scientifica.
E poi c’è Erica Villa, che ho conosciuto proprio di ritorno da un meeting di SWIM, perché ci siamo trovati sul stesso treno e abbiamo iniziato a scambiarci qualche idea. Da quell’incontro siamo sempre rimasti in contatto, abbiamo co-curato una mostra e la collaborazione si è consolidata.
Facendo questo lavoro che cosa hai imparato di te? C'è qualcosa di particolare che hai scoperto?
Se guardo da dove sono partito, cioè da collaboratore di un piccolo giornale di provincia, non avrei mai pensato di finire a lavorare in un contesto così internazionale. Questo lavoro mi ha costretto ad aprirmi a questa dimensione internazionale e questo ha cambiato il mio mindset.
Oggi ti senti bene in questo ruolo?
Sì, ma nella mia vita professionale c’è anche tutta un’altra parte di cui non ti ho parlato. Nel 2021 ho fatto un Master in UX e Architettura dell’Informazione.
E come mai questo master? Avevi il tuo lavoro, è già abbastanza impegnativo, e all’improvviso hai deciso di fare un master su un argomento nuovo: raccontaci com'è andata
L’interesse è nato dal restyling di un sito web che non mi convinceva e non capivo esattamente perché. Un mio carissimo collega, allora vicino di scrivania, Toni Fontana, mi disse “quello che cerchi si chiama architettura dell'informazione. C’è anche un Master su questo allo IULM”. E lì capii che era proprio questa competenza che mi mancava e di cui sentivo il bisogno. Iniziai a leggere, documentarmi, ma non mi bastava e alla fine mi sono deciso e ho detto “sai che c'è, vado a fare il master”.
E poi?
Finito il master, mi sembrava strano non portare avanti in qualche modo quello che avevo iniziato ad imparare. Io sento proprio il bisogno di fare cose nuove, nella comfort zone non riesco a starci più di tanto. Mi sono posto molte domande su che cosa volessi fare, ma non era banale integrare le competenze di UX nella mia routine nelle media relations. E allora la prima scelta è stata quella di trovare una conciliazione, attraverso un part-time: dovevo conciliare sia gli impegni di famiglia che andavano crescendo, sia questa mia necessità di continuare a studiare e di mettermi alla prova in un nuovo ambito, che è quello del design dei servizi, digitali e non perché ormai viviamo “onlife”.
Dovevo trovare nuovi spazi di sperimentazione, non alternativi, ma sinergici all’Università. Così l'anno scorso, con la professoressa Fabiana Zollo abbiamo fondato questo nuovo centro che si chiama ECHO Science Communication Hub all’interno della Fondazione dell'Università. Sono nel comitato di gestione, con Erica Villa, Fabiana Zollo è la direttrice scientifica.
E qual è oggi la tua visione della comunicazione della scienza, alla luce della tua esperienza nelle media relations, nella comunicazione della ricerca ma anche nel design?
Anche se ancora non ho chiaro come concretizzarla, la mia visione è quella di pensare la science communication come un servizio. Un servizio che ha un “committente”, che è chi fa la ricerca, il progetto, e degli utenti, che sono le persone, i gruppi, le istituzioni, gli stakeholder che dalle attività e dai risultati che comunichiamo possono trarre valore. Significa che la progettazione, cioè il design, deve partire da questi pubblici. Più facile a dirsi che a farsi. Ma sono persuaso che con un approccio da designer, con metodi partecipativi e propensione all’ascolto, la comunicazione e l’engagement possano davvero fare la differenza e portare valore a tutti i protagonisti di questa relazione.
Per me il master è stato anche il primo approccio alle metodologie di facilitazione. Adesso, non è che io sia un facilitatore come non sono un architetto dell'informazione… così come non è importante il tesserino di giornalista che ho in tasca, mi ripeto sempre, l’importante è quello che si fa, l’approccio, la deontologia. Cerco sempre di coinvolgere chi eccelle in una particolare competenza “verticale”. Però inizio a parlare la stessa lingua di molte di queste verticalità. Quello che mi ha sempre caratterizzato è questo cercare di conoscere una professionalità della comunicazione abbastanza da per poter dialogare con esperte ed esperti.
Certo, io non so tecnicamente fare un sito web, però posso dialogare con uno sviluppatore. Questa versatilità è molto utile nel supporto a chi fa ricerca. Per esempio, recentemente parlando con un ricercatore della sua bellissima visualizzazione di dati a livello globale, interattiva, mi sono divertito con lui a riesaminare le sue scelte: “Ma perché usi quella scala di colori che mi dà queste idee e non usi quest'altra che magari può funzionare meglio?”.
Io non sono un esperto di data visualization, però ho maturato alcune competenze nel corso della mia storia leggendo e ascoltando maestri come Edward Tufte e Alberto Cairo. Questo mi permette di muovermi in questa disciplina, dare qualche suggerimento, dialogare con chi ne sa di più. Questo in vari ambiti. Mi definirei un “jack of all trades, master of none”, un ruolo che ha tanti limiti, ma altrettante potenzialità.
E come procede l’esperienza di ECHO Science Communication Hub? Puoi farci qualche esempio di quello che fate? Di come portate avanti la vostra visione?
Ti racconto un'esperienza capitata proprio in uno dei primi mesi di vita di questo centro. Un professore ci contatta per chiedere supporto per il paragrafo della comunicazione all’interno di una proposta per un progetto europeo. Fissiamo un appuntamento per parlarne di persona. La loro idea era “ti dico su cos'è la ricerca e tu puoi scrivere il paragrafo della comunicazione”. Io invece metto sul tavolo un grande foglio, traccio due linee e imposto una mappa degli stakeholder. “I post-it li scrivo io, però dovete dirmi voi quali sono i vostri stakeholder”. E da lì abbiamo iniziato a riflettere e far emergere informazioni molto importanti: da questo lavoro, inerente la comunicazione, è emerso anche un possibile partner di progetto a cui non avevano pensato. In soli 20 minuti di laboratorio di co-design abbiamo ripensato anche aspetti del progetto, per esempio abbiamo ragionato insieme sul significato di Citizen Science, e siamo arrivati a modificare la struttura di alcune attività inserite nel progetto. Nel frattempo il progetto è stato finanziato.
Vedo una continuità nella tua carriera: ed è proprio quella di svolgere questo ruolo di facilitatore della comunicazione, quello che fa comunicare le persone tra di loro all’interno dell’università, crea occasioni per collaborare tra specialisti di settori diversi, tra l’interno e l’esterno del mondo accademico. L'hai sempre fatto entrando in contatto con le persone, studiando la stanza, studiando il contesto in cui ti inserivi...
In generale mi piace stare dietro le quinte e da lì mettermi a unire i puntini. Mi viene in mente un'altra esperienza che è stata fondamentale e che non ti ho ancora menzionato: Hacks/Hackers.
Si tratta di un network internazionale di giornalisti ed esperti di tecnologia, nato negli Stati Uniti nel 2009: il digitale stava rivoluzionando il panorama informativo e questi due mondi dovevano parlarsi, allora nacque questa idea di organizzare dei meetup informali in varie città del mondo.
Nel periodo a Cambridge, avevo partecipato a qualcuno di questi incontri, anche al MIT e al Boston Globe. Tornato in Italia, quel fermento mi mancava e così ho fondato Hacks/Hackers Venezia, nel 2014. Con i primi contatti trovammo la location ideale a Mestre, con spazi per presentazioni e un ristorantino così poi ci fermavamo a cena. Lì ho conosciuto Fabiana Zollo che era da poco sbarcata a Ca’ Foscari come ricercatrice. Ho conosciuto in questi incontri un sacco di altre persone con cui sono rimasto in contatto: Alice Corona, che venne a seguire un incontro, Matteo Moretti che aveva appena vinto il Data Journalism Award. Quando poi nacque mio figlio diventò sempre più complicato organizzare questi incontri, perché non avevo più tempo, ma i contatti nati lì sono stati veramente fondamentali.
Questa tua costante costruzione ed esplorazione di network professionali anche apparentemente diversi tra loro ha accompagnato un po’ tutta la tua carriera in Università. Come vedi la relazione tra ricercatori e comunicatori della scienza?
Da parte di ricercatrici e ricercatori ho sempre notato interesse per la comunicazione e anche disponibilità a farsi supportare. Dal 2017 fino all’anno scorso ho organizzato all’interno dell’Università la Research Communication Week, una settimana di formazione sulla comunicazione della ricerca rivolta proprio a loro: lo scopo non era quello di renderli dei comunicatori della scienza, ma creare un piano di dialogo, una sintonia. Insomma, se i ricercatori capiscono meglio come funziona la comunicazione secondo me lavoriamo meglio tutti. Non ho mai insegnato io in questi corsi, ho sempre portato le persone esperte che conoscevo attraverso i vari network di cui abbiamo parlato, quindi l'ho sempre visto come un'opportunità per portare all'università quello che io avevo imparato fuori, per portare un valore aggiunto e contaminare gli ambienti, permettendo ai ricercatori di comprendere meglio quante e quali competenze ci siano dietro al nostro lavoro. Questa contaminazione tra ambienti è sempre produttiva: per esempio è dalla Research Communication Week che è nato il progetto QUEST.
Di che cosa si tratta?
Proprio perché mi conoscevano per questa iniziativa, delle colleghe di un’altra istituzione veneziana condivisero con me la loro idea per una call europea. A mia volta coinvolsi Fabiana Zollo e insieme mettemmo su il consorzio e la proposta. QUEST sta per “Quality and Effectiveness in Science and Technology communication”. Abbiamo lavorato con un team internazionale di altissimo livello e distillato da tanta ricerca delle linee guida che oggi sono poster appesi negli uffici di tante università e centri di ricerca. Ho avuto il ruolo di workpackage leader sulla parte riguardante formazione e politiche, credo che sia una cosa inusuale per un comunicatore che lavora all’interno all’istituzione. Dopo questa esperienza è capitato di essere contattato da colleghi per supportare nella stesura dei workpackage di comunicazione nelle proposte dei progetti, questo mi ha fatto percepire un bisogno che poteva essere soddisfatto meglio. Si tratta di un’attività che esula dai miei compiti di media relations. Ed è anche da questa esigenza che è nata l'idea di creare ECHO Science Communication Hub in cui possiamo mettere a sistema competenze e network, in primis al servizio dei ricercatori dell’Università.
Grazie Enrico per aver condiviso la tua storia e per la tua mania di unire i puntini dei network professionali!