#5 Riccardo, un chimico in cerca della formula anti-spiegone
Mentre mi racconta la sua storia, Riccardo Lucentini esplora le dinamiche della comunicazione scientifica senza nascondere le difficoltà del suo percorso e le sfide della professione.
Nato a Foligno nel 1989, Riccardo Lucentini è un chimico e comunicatore della scienza, attualmente borsista presso il CMP³VdA, centro dell’Istituto Italiano di Tecnologia dedicato alla medicina personalizzata, preventiva e predittiva. Dopo un’esperienza come ricercatore in un’azienda farmaceutica e un master in comunicazione della scienza, ha deciso di specializzarsi nella comunicazione scientifica istituzionale. Collabora stabilmente con la rivista Sapere Scienza ed è Consigliere del gruppo Diffusione della Cultura Chimica della Società Chimica Italiana.
Partiamo dall’inizio: quando comincia il tuo percorso nella comunicazione della scienza?
All’inizio il desiderio di lavorare nella comunicazione non era chiarissimo, ma fin da adolescente ho sempre avuto il pallino di coinvolgere le persone in ciò che conoscevo. Già al liceo scientifico mi piaceva partecipare a quei piccoli eventi in cui mostravamo agli studenti delle medie o delle superiori quello che si faceva nei laboratori. Era una prima forma di esperienza. Ai tempi si chiamava Settimana della Scienza, non so se esiste ancora. Mi piaceva molto, mi divertiva, e riuscivo anche a coinvolgere abbastanza bene le persone. Ovviamente dovevamo arrangiarci con i mezzi limitati di un liceo di provincia dell’alta Toscana. Comunque all’epoca la scuola che ho frequentato io era considerata tra le migliori della zona, mi ha dato una buona preparazione scientifica.
Dopo il liceo che cosa hai deciso di fare?
Il mio percorso è proseguito naturalmente verso le materie scientifiche. Nel 2013 mi sono laureato in chimica industriale, prima triennale e poi magistrale. In quegli anni ho continuato a fare divulgazione ma in modo sporadico, il mio focus era lo studio e mi vedevo in un futuro accademico. Mi sono iscritto al dottorato ma non è andato come speravo e non sono riuscito a concluderlo. A quel punto sentivo l’urgenza di trovare un po’ di stabilità e così nel 2016 mi sono trasferito in Lombardia per fare ricerca in un’azienda farmaceutica.
Come hai affrontato quel periodo?
Al fallimento del dottorato è seguito un momento difficile, dove tutte le certezze che avevo si sono incrinate. Quando mi sono trasferito in Lombardia ho avuto la fortuna di trovare casa a Cislago, un paese del Varesotto dove un’associazione di volontariato chiamata Scientificamente ASC si occupava di divulgazione scientifica. Una realtà piccola e molto territoriale che operava nei comuni della zona e faceva bei progetti.
Dopo aver letto di loro sul giornalino del comune, ho deciso di andare a conoscerli di persona. E, ovviamente, con il mio background scientifico, non è che mi abbiano fatto un test per entrare! Anzi, si sono mostrati molto interessati e ci siamo trovati bene fin da subito. Durante il periodo in cui sono stato lì ho tenuto due conferenze e, in occasione dei festival, avevo uno stand tutto mio dove proponevo esperimenti, attività divulgative o davo una mano negli altri stand. Quell’esperienza mi ha fatto capire che questa cosa mi riusciva e mi piaceva. Quando facevo le conferenze, notavo che c’era una risposta di pubblico migliore rispetto ad altri relatori.
Il lavoro in azienda invece come andava?
Mi trovavo bene e mi stava aiutando a lasciarmi alle spalle il senso di fallimento legato al dottorato. Però cresceva sempre più il mio interesse per la comunicazione. A un certo punto sentivo di aver già visto tutto quello che potevo vedere professionalmente, mi sentivo “a posto”.
Poi arrivò il momento di scegliere: propormi come responsabile della mia funzione attuale oppure accettare un ruolo più avanzato, ma sempre come ricercatore sotto supervisione. Essendo ancora nuovo in azienda, optai per la seconda opzione. Era un passo avanti nella carriera, con un piccolo aumento, ma il lavoro risultò presto ripetitivo e poco stimolante. Non potevo rifiutare, ma sapevo che alla lunga mi sarei annoiato, e così è stato. Intanto, il desiderio di fare comunicazione scientifica tornava a farsi sentire sempre più forte.
Come hai reagito a questa sensazione?
Ho iniziato a informarmi su quel mondo, cercando opportunità concrete. È così che ho scoperto il master in Comunicazione della Scienza e dell’Innovazione Sostenibile (MaCSIS) all’Università Milano-Bicocca. Ho letto il programma, guardato i nomi dei docenti e ho pensato: “Questa cosa mi ispira”. Nomi importanti, come Pietro Greco, Chiara Albicocco, Luca Carra… persone da cui si poteva imparare molto. Di Pietro Greco non avevo un’idea precisa, ma dopo averlo conosciuto ho capito che personaggio straordinario fosse.
Sono andato in azienda proponendo un compromesso: il master era nei weekend, potevamo venirci incontro? Magari passare a un contratto part-time per un anno? Ma la risposta è stata negativa. A quel punto ero costretto a prendere una decisione e ho scelto di seguire il cuore: mi sono licenziato, una scelta difficile ma sentita. Per mantenermi durante il master me la sono cavata dando ripetizioni di materie scientifiche.
Il master ha soddisfatto le tue aspettative?
E qui arriva la beffa! Mi sono iscritto a novembre 2019 e a metà febbraio 2020 è arrivato il primo caso di Covid in Italia. Abbiamo seguito in presenza forse il 40% delle lezioni. Il master era pensato per essere totalmente in presenza, “alla vecchia maniera”, non era pronto per la modalità ibrida e molti corsi sono stati adattati male all’online. Questo ha penalizzato molto l’esperienza.
E poi è venuta meno la componente più preziosa: il networking, il contatto umano, gli scambi informali tra colleghi, tutto ciò che dà valore a un’esperienza formativa e che online si perde.
Abbiamo avuto comunque la fortuna di seguire in aula docenti come Greco, Carra e Albicocco.
Studiando la comunicazione della scienza, mi sono reso conto che è un ambito molto più complesso di quanto sembri quando si è all'interno della comunità scientifica. Da dottorando e durante l’attività di ricerca l’avevo sempre considerata un’operazione semplice. Solo quando inizi a studiarla davvero capisci quanto sia complicata e articolata.
In che senso? Che cosa c’è di complicato o di complesso nella comunicazione della scienza?
Per me la parte più difficile è la targetizzazione del pubblico, è davvero complicatissima. Me ne sono reso conto seguendo il corso di sociologia della scienza con il Professor Cerroni, direttore del master. In poche slide ha smontato il deficit model e per me è stato un momento di svolta. Il deficit model è una vera porcheria. Scrivilo pure così come l’ho detto, perché è uno dei “mulini a vento” contro cui combatto di più.
Capire davvero a chi ti rivolgi è fondamentale, bisogna adattare linguaggio, approccio e contenuti. E proprio per questo mi piace scrivere: quando scrivi per una testata, il pubblico è già in parte definito. Anche se ci metto sempre il mio stile, so come orientarmi.
Invece nell’attività di conferenziere, mi chiedo spesso: “ma tutte le volte devo ricordare al pubblico che cosa sono elettroni, protoni e neutroni?” La verità è che molti magari non ricordano più neanche il modello atomico base, quello “a sistema solare”, quindi la domanda è lecita.
Parlare in pubblico mi appassiona, ma riconosco che la conferenza tradizionale è una forma ancora molto legata al deficit model. D’altro canto se mi invitano a relazionare a un evento, perché rinunciare? Tanto vale usare quell’occasione per portare qualcosa di mio, magari contaminando un po’ il formato classico. Cerco quindi di rendere i miei interventi il più interattivi possibile, con domande e quiz, adattando il linguaggio in tempo reale. È una questione di equilibrio tra ciò in cui credo e ciò che, concretamente, si può fare.
Il master ti è stato utile? In che modo?
Sì, soprattutto grazie al tirocinio alla Royal Society of Chemistry – sezione Italia, che mi ha permesso di scoprire l’aspetto istituzionale della comunicazione scientifica. Fino ad allora mi ero concentrato principalmente sulla divulgazione dal vivo, ma mi sono reso conto che il lavoro da libero professionista non faceva per me. Servono competenze e attitudini che non sentivo di avere, come la capacità di fare autopromozione sui social e di trovare clienti.
Il master mi ha anche aiutato a costruire una rete. Nella primavera del 2022, con alcuni colleghi, abbiamo partecipato a una call dell’Università di Milano Bicocca per accedere a un crowdfunding: il nostro progetto, una escape room sulla sostenibilità destinata alle scuole medie, ha vinto e ottenuto il finanziamento, così abbiamo installato l’attività nella biblioteca di Arese all’inizio del 2023, dove siamo rimasti tre mesi. Un anno di lavoro tostissimo che ci ha regalato soddisfazioni.
Inoltre, il master mi ha messo in contatto con la redazione della rivista Sapere Scienza, che ha apprezzato la mia tesi e ha pubblicato alcuni estratti. Ora collaboro con loro stabilmente, curando una rubrica sulle notizie dal mondo della ricerca, un’attività che mi dà molta soddisfazione.
E dopo il master cos’è successo?
Mentre lavoravo al progetto della escape room, collaboravo anche con il Gruppo Interdivisionale Diffusione Cultura Chimica della Società Chimica Italiana. Lì ho avuto la conferma che mi interessava lavorare in ambito istituzionale, con l’obiettivo di rendere la chimica più accessibile alla società, nonostante alcune difficoltà intrinseche della materia, che si presta poco a una comunicazione coinvolgente. Nel 2022 sono stato eletto consigliere del Gruppo e ho iniziato a organizzare diverse iniziative istituzionali.
Nel frattempo, però, le difficoltà economiche si facevano sentire, e quindi mi sono dato un tempo massimo entro il quale trovare un lavoro in Lombardia o tornare a casa dai miei. Proprio in quel periodo ho vinto un bando del CNR di Bologna per un progetto di divulgazione nelle scuole. Da quel momento si è avviata la mia carriera nel campo istituzionale e ho iniziato a costruirmi una credibilità nel settore che mi interessava di più.
Dopo questa esperienza ho lavorato per qualche mese in Fondazione RI.MED a Palermo, nella comunicazione interna di un progetto di trasferimento tecnologico, un ambito che però mi interessava meno. Nel frattempo è uscita un’altra borsa all’Istituto Italiano di Tecnologia ad Aosta, così ho fatto domanda, sono andato e ora lavoro lì, occupandomi di comunicazione, rapporti con la stampa e attività sul territorio per un centro di ricerca dedicato alla genomica e alla medicina personalizzata.
Tutte queste esperienze mi stanno aiutando a costruire un curriculum solido e completo, in linea con il mio obiettivo: diventare un punto di riferimento istituzionale nella comunicazione della chimica. La mia aspirazione più grande è quella di ricoprire un ruolo stabile come comunicatore all'interno di un dipartimento o di un centro di ricerca a vocazione chimica.
Adesso che mi hai raccontato il tuo percorso, parliamo dei comunicatori della scienza in Italia: secondo te esiste una “comunità”? E tu ti senti parte di questa comunità oppure no?
Che domandona! Anzi, sono due domande molto grandi.
Ormai da quattro anni partecipo a Folle di Scienza. Se mi chiedi: “Ti senti parte di quella comunità?”, la risposta è… più no che sì. Per come la vedo io, quella che si riunisce ogni anno a Strambino non è una comunità davvero unita. Mi sembrano tanti cervelli di indubbio valore, ognuno dei quali porta avanti se stesso. Non ho la sensazione che ci sia una grande e unica rete. Al massimo, ci sono delle sottoreti, gruppi che si supportano tra loro, ma non una vera comunità coesa.
Una cosa che ancora faccio fatica a comprendere è: come si entra a far parte di queste reti? Cosa crea affinità? Su cosa si basa l’essere accolti? A mio parere uno degli elementi chiave è la forza comunicativa sui social. C’è una spinta evidente verso coloro che riescono a emergere online con energia e una presenza ben strutturata. Queste figure attirano subito l’attenzione degli “Strambinari” di Folle di Scienza.
La presenza sui social, che dovrebbe essere una scelta basata sui propri valori e sulla propria comfort zone, diventa quindi una stretta necessità: è una dinamica che un po’ mi pesa.
Ma attenzione: anche se vedo delle criticità, quello che succede a Strambino è sempre meglio di niente. Avere uno spazio dove ci si confronta, dove ci si ascolta, è già molto. È da lì che nasce un sottobosco comune, una possibilità di riconoscersi, almeno parzialmente, in alcuni valori condivisi. Non li vedo come una comunità unita, ma hanno creato un luogo di confronto. Ed è importante che esista e che le persone continuino a portare avanti questo confronto.
Dopo aver conosciuto così tanti comunicatori, quali ritieni siano le caratteristiche fondamentali di un buon comunicatore della scienza?
So che ci sono divulgatori e divulgatrici che non accettano l’idea di una valutazione della qualità nella comunicazione scientifica, ma io non sono d’accordo. Per me dei criteri di qualità esistono, anche se sono ampi e vanno pensati come spettri continui più che come indicatori rigidi.
Personalmente riconosco la qualità quando vedo un metodo che condivido. Non mi interessa tanto il formato o il tono con cui viene veicolato un contenuto, né la piattaforma su cui viene pubblicato. Quello che apprezzo è la volontà di dare un’impronta personale. E poi la cura nella selezione delle fonti. Preferisco di gran lunga chi parte da un paper, da una fonte primaria, o comunque da una rielaborazione vicina alla comunità scientifica. È una questione di metodo e rispetto per la materia.
Ecco, quando vedo questa attenzione, questo rigore, insieme a una voce personale, lì riconosco la qualità.
Per questo mi sono trovato in forte disaccordo, anni fa, con una recensione negativa uscita sul primo libro di Barbascura X, Il genio non esiste (e a volte è un idiota). Certo, lui usa un linguaggio molto particolare, anche estremo a volte, e fa errori. Ma dietro c’è un metodo: si vede che studia, che usa fonti serie. E quindi, per quanto possa non piacere lo stile, io non me la sento di dire che il suo lavoro sia di bassa qualità perché usa quel tipo di linguaggio, oppure perché porta la semplificazione a un livello che in altri contesti può sembrare eccessivo.
Come è vista la figura del comunicatore della scienza in Italia? Secondo te è una figura riconosciuta?
Non è ancora riconosciuta come dovrebbe.
Il vero problema è legato ancora una volta al deficit model. Per colpa di questo modello la comunità scientifica si sente quasi esonerata dalla responsabilità di comunicare: “vabbè, tanto devo fare semplicemente quello che faccio in università, perché con due spiegoni ho fatto comunicazione della scienza”. Il deficit model all'estremo è questo. Ecco, non è così, lo sappiamo da almeno vent’anni. Eppure questo approccio continua a essere prevalente, creando un grosso danno: non si considera la comunicazione scientifica come qualcosa che richiede una competenza specifica, e quindi come una vera e propria professione.
Io sto cercando di combattere questa visione, anche se a volte mi sembra di lottare contro i mulini a vento. Sono dentro la Società Chimica Italiana non solo perché sono chimico, e voglio rimanere ancorato al mondo della chimica, ma anche per dare solidità al ruolo del comunicatore dall’interno della comunità scientifica stessa.
A proposito di mulini a vento, quali sono stati gli ostacoli che hai incontrato in questo percorso?
Uno degli ostacoli principali riguarda il finanziamento. La comunità scientifica spesso non investe abbastanza in comunicazione, nonostante vengano spesi ingenti fondi per organizzare convegni scientifici. È frustrante sentire continuamente dire “non c’è budget”.
Un altro problema sono gli indicatori di qualità. Gli enti finanziatori richiedono KPI per i progetti, ma nella comunicazione scientifica è difficile misurare l’impatto. Come fai, per esempio, a correlare l’aumento degli iscritti a una facoltà scientifica al successo di una campagna di comunicazione? La comunicazione non è un’attività di vendita che porta un ritorno diretto. Da una parte ci sono i comunicatori che non vogliono applicare indicatori di qualità, dall’altra ci sono gli enti finanziatori che giustamente li richiedono.
Io credo che, pur con flessibilità, sia necessario prevedere qualche forma di indicatore, soprattutto per chi, come me, vuole dare alla propria comunicazione un’impronta istituzionale. È una questione di accesso ai finanziamenti e di credibilità.
Che cosa ti ha aiutato ad affrontare questi ostacoli e, in generale, ad avere successo nella tua professione?
Quello che mi ha aiutato più di tutto è la resilienza. Bisogna perseverare ed essere pronti ad adattarsi, a cambiare, a cogliere le opportunità quando si presentano. La voglia di mettersi continuamente in gioco, pretendendo sempre il massimo da se stessi, è una caratteristica che ti aiuta a rimanere nel gioco e a crescere come comunicatore. Io personalmente sono molto autocritico, e anche quando una cosa viene bene, mi chiedo sempre cosa posso fare per migliorarla.
Pensi che anche le relazioni abbiano un ruolo importante?
Sono fondamentali! Senza le relazioni non si fa comunicazione. Nel corso degli anni ho avuto la fortuna di incontrare persone che considero molto importanti, sia divulgatori che scienziati. Per esempio penso alla redazione di Sapere Scienza e di Scienza in Rete, due luoghi in cui riesco a esprimere molto bene il mio stile comunicativo. Mi sento legato anche alle persone che mi hanno formato e grazie a cui va avanti la mia crescita professionale, figure provenienti sia dal master, sia appartenenti alle istituzioni che ho incontrato in questi anni. E non vorrei tralasciare i due direttivi del Gruppo Interdivisionale Diffusione Cultura Chimica della Società Chimica Italiana: persone con un entusiasmo e una convinzione trascinante in quello che fanno. Anche con le persone che divulgano sui social e con alcuni che partecipano a Folle di Scienza ho stretto relazioni a cui tengo molto: se qualcuno/a di loro dovesse leggere l’intervista, sa a chi mi sto riferendo.
Quindi, sì una rete di persone c'è e spero di poterla consolidare ed espandere.
Hai mai avuto difficoltà a far comprendere la natura e il valore del tuo lavoro agli altri? Cosa rispondi quando ti chiedono "che lavoro fai"?
Le persone che ho intorno, soprattutto gli amici, riconoscono il valore di quello che faccio e ho sentito varie volte la parola "coraggio" legata al mio percorso professionale. Alcuni si sono detti colpiti dalla passione che traspare nei miei scritti.
Quando si tratta di definire il mio lavoro con persone esterne alla comunità scientifica mai incontrate prima, di recente sto usando la dicitura "divulgatore scientifico" anche se non mi piace, perché rispecchia poco la complessità di quello che faccio. Quando sono al bar davanti a un panino e una birra, penso che questo sia il modo più rapido e meno impegnativo per inquadrare il mio ruolo di "facilitatore" nel rapporto scienza-società.