#4 Amalia, comunicatrice militante
Dal dottorato sul situazionismo alla Commissione Europea, passando dalla lionese "Boutique des Sciences": ripercorriamo l'esperienza di Amalia, prima che scompaia nella sua capanna in Amazzonia
Amalia Verzola è un’altra delle comunicatrici della scienza che ha fatto gran parte del suo percorso fuori dall’Italia, mantenendo però sempre un legame con il nostro Paese. Un legame che, passando dai progetti europei, l’ha condotta fino a Bruxelles, dove oggi è Communications Project Manager presso la Health Emergency Preparedness and Response Authority (HERA) della Commissione europea.
Benvenuta Amalia, raccontami da dove è cominciato tutto: come sei diventata comunicatrice della scienza?
Cercherò di essere sintetica, perché è una storia lunga. Dunque, tutto è iniziato durante la mia formazione. Ho studiato filosofia, e in quegli anni ho scoperto la mia passione per la figura dell’intellettuale engagé. Il mio dottorato si è focalizzato sui situazionisti, gruppo post-marxista che incarnava proprio questo ideale di intellettuale impegnato nel cambiare la società.
Non conoscevo ancora la comunicazione della scienza, il mio sogno al tempo era di fare la giornalista. E ci ho provato restando in Italia, ho lavorato per un po’ nella redazione cultura dell’ANSA, ma mi sono scontrata con le difficoltà del contesto lavorativo italiano: l’insicurezza e l’instabilità.
Poi sono stata a Bordeaux per un tirocinio in una ONG che si chiama Maison de l’Europe. Con loro organizzavamo eventi informali per la popolazione, aperitivi per far conoscere il cibo e la cultura dei paesi europei, e ho scoperto il desiderio di far conoscere le politiche europee a una popolazione più vasta.
Nel 2017 sono tornata in Italia, a Bologna, per organizzare la notte europea dei ricercatori, dove mi sono ritrovata a svolgere un’attività in linea sia con la mia esperienza sia con i miei interessi: aiutare i ricercatori a comunicare in maniera nitida e comprensibile il loro sapere alle persone sul territorio, attraverso diversi eventi diffusi nelle location universitarie della città, dalla biblioteca all’orto botanico passando per il cimitero monumentale della Certosa.
Ma l’esperienza che più di altre ha aperto la mia mente è stata quella dei Science Shop, dispositivi che ho avuto modo di conoscere quando ho lavorato per la Boutique des Sciences dell’Università di Lione tra il 2017 e il 2018. Si tratta di un dispositivo interessantissimo: ti spiego. Vengono coinvolti in parallelo studenti universitari, prevalentemente di master, e associazioni del territorio. Le associazioni presentano all’università quali problemi, a loro parere, dovrebbero essere affrontati dai ricercatori. Gli studenti poi vengono assegnati alle associazioni per uno stage, costituendo un ponte tra università e territorio, e lavorano fianco a fianco all’associazione per trovare risposta alla problematica proposta, sotto la guida di un ricercatore dell’università. Dopo 6 mesi di stage lo studente deve presentare un compte rendu con i risultati del progetto. Questo tipo di iniziativa avvicina i territori alla conoscenza, attraverso l’esperienza concreta di un giovane che poi può prendere anche questa strada, quella della comunicazione della scienza, o continuare con la ricerca.
È con questa esperienza che ho capito che il ricercatore non deve stare lì, chiuso nel suo laboratorio, distaccato dalla società, ma che dovrebbe piuttosto disseminare la conoscenza e orientarsi verso la società.
E poi come sei approdata in Commissione Europea?
Ora lavoro in una Direzione che si occupa di preparedness, preparazione alle emergenze sanitarie. Ma sono arrivata qui a Bruxelles come press officer presso il Joint Research Centre della Commissione, seguendo una trama che passava dal mio precedente lavoro come EU project manager in Francia. Il JRC è un centro diffuso, con sedi diverse tra cui la più importante è a Ispra. In quel contesto organizzavamo anche visite stampa nei laboratori, l’obiettivo era quello di far conoscere ai cittadini quello che si fa in questi laboratori. Il fil rouge delle mie esperienze all’interno delle istituzioni europee è il bisogno di comunicare le politiche europee in maniera accessibile. Perché possano risultare comprensibili per il cittadino comune, non basta scrivere il comunicato stampa: bisogna andare sul territorio, presentare quello che si fa. Attualmente stiamo facendo proprio questo, con la mia Direzione, dove da quasi due anni curo una campagna di sensibilizzazione nei diversi Stati membri, per incontrare aziende, cittadini, ONG, CSO, università e centri di ricerca.
Ora che sei a Bruxelles, come si vede l’Italia della comunicazione della scienza da lì?
Sono sempre rimasta informata su quello che succede in Italia: attraverso le partnership nei progetti europei, ho collaborato con gruppi di Firenze e Cagliari che si occupano di ricerca partecipata. Un ruolo importante lo svolge sicuramente la SISSA di Trieste, e a Bologna c’è un ecosistema piuttosto nutrito. Quello che vedo è che le cose sembrano andare piuttosto bene. Ad esempio, ho visto che recentemente è stata anche creata l’associazione Citizen Science Italia.
Tutti questi network di comunicatori della scienza ruotano spesso intorno ai progetti europei. Ora che sono in Commissione Europea non partecipo più ai progetti e mi manca. Ma tra alcuni anni scadrà il mio contratto, e probabilmente tornerò ad occuparmene, chissà. Bisogna riconoscere che tutto l’interesse per temi come scienza e società, participatory research, citizen science, responsible research and innovation, è merito dei finanziamenti dell’Unione Europea, che ha contribuito a creare questi piccoli ecosistemi in Italia, ma anche in Francia per esempio, o negli altri Stati membri.
Cosa hai imparato di te stessa in questo percorso?
Ho scoperto che non bisogna sedimentarsi in ruoli o attività, quando si possono sperimentare altre strade. Volevo fare la giornalista, non è stato possibile, e allora perché non provare a fare qualcos’altro, che poi magari ti piace pure di più?
Ho riscontrato che anche molti dei miei colleghi - forse è comune a tutti quelli che si occupano di comunicazione della scienza - fanno tante attività diverse, ma non è solo questione di sbarcare il lunario. C’è tanta voglia di essere flessibili, malleabili a esperienze diverse. Io mi ritrovo nella definizione di slash worker, quella persona che fa questo e fa anche quell’altro ed è contenta così. Non significa essere instabili o incapaci di prendere una direzione specifica, significa esser curiosi e capaci di spendersi in attività differenti.
È cambiata la tua comprensione di questa professione, rispetto a quello che ti aspettavi quando hai cominciato?
L’esperienza lionese mi ha cambiato: mentre prima pensavo che la comunicazione della scienza fosse solo spiegare chiaramente concetti scientifici complessi, la Boutique des Sciences mi ha aperto gli occhi sul mondo della ricerca partecipata e sul concetto di inclusività.
A Lione andavamo nei quartieri più difficili ad organizzare gli eventi di outreach, portavamo nelle strade gli stand degli scienziati per coinvolgere i giovani, i soggetti vulnerabili, tutti coloro che a causa di disparità sociali non hanno la stessa possibilità di avvicinarsi alla scienza. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose. Siamo dei privilegiati, e forse a volte non ce ne rendiamo conto, ed è nostro compito aprire il più possibile a chi potrebbe incontrare degli ostacoli. Essere inclusivi significa trovare soluzioni concrete per ridurre questi ostacoli: anche una persona che non ha la cittadinanza ma è residente sul territorio deve poter contribuire, partecipare, accedere alla scienza e sta a noi trovare una soluzione se, per esempio, non ha accesso a internet e non può contribuire ad alcuni progetti come invece possono farlo altri.
Prima hai parlato di citizen science, raccontaci di più di questo tema...
Mi sono occupata di citizen science nel contesto di alcuni progetti europei e trovo che sia un concetto molto importante perché scardina molti stereotipi. Mi sembra infatti che il deficit model sia ancora molto comune nell’ambito della comunicazione, e in senso più lato l’idea che il cittadino non possa capire granché di scienza, ma che vada educato. Invece la citizen science sostiene che il cittadino non solo può comprendere la scienza, ma può contribuire attivamente. Certo, si tratta di una sfida, perché bisogna trovare il modo giusto per valorizzare il contributo dei cittadini, in base alle diverse aree di ricerca. In alcuni settori è davvero un contributo fondamentale. Per esempio nell’ambito di un progetto finanziato dall’UE, un’Università in Slovenia, l’Università del Litorale, ha coinvolto i cittadini nel processo di raccolta dati sulla biodiversità locale tramite un’app che permetteva agli utenti di registrare le specie di animali selvatici presenti sul territorio. Un’altra area di coinvolgimento molto importante è quella delle politiche energetiche. Con la citizen science, il contributo può avvenire dall’inizio alla fine di un progetto: dalla definizione degli obiettivi di ricerca alla comunicazione dei risultati. La citizen science contribuisce a democratizzare la conoscenza e aiuta gli scienziati a sintonizzarsi meglio con la società.
Ci sono state delle persone particolarmente importanti per te in questo percorso?
Mario Perniola è stato il mio mentore durante il dottorato, mi ha insegnato che cosa significa essere un filosofo militante. Lui stesso era un militante, un situazionista. Quando durante il dottorato sono stata in Francia a studiare il situazionismo, lui mi ha insegnato il valore del networking, quello che lui chiamava la socialità. Mi diceva: tu non devi andare solo là a studiare, devi andare a incontrare il filosofo x, y, z, discutere, imparare, essere aperta. E da lui ho imparato anche un’altra cosa, forse come controparte a questa apertura alla società: il ripiegarsi su se stessi. Lui per un mese all’anno andava in Brasile e si chiudeva in una capanna da solo, senza contatti, senza internet, a riflettere. Anche io sento questo bisogno di ripiegarmi e rifocalizzarmi, forse ricaricarmi, nella solitudine.
Poi ci sono state molte altre persone importanti, sono tutti diventati amici: ex capi, colleghi, ho amici sparsi un po’ ovunque. È quasi un lavoro mantenere questa rete ma è questo il bello, della vita e della nostra professione.
Anche qui, so che sono di passaggio. Ho visto tante persone arrivare, diventare amici, e poi andarsene: le amicizie cambiano forma, diventano amicizie digitali, ma continuano ad essere importanti.
Un’altra occasione di incontrare persone e fare amicizie importanti è stato il mio lavoro come project manager per la European Science Engagement Association. Collaborando con questo network europeo (ma non solo) ho costruito molte amicizie e scoperto le iniziative di colleghi che hanno lavorato sull’engagement in Islanda, Cina, o in Sudafrica. È stata per me un’occasione di apprendimento tra pari preziosa, che fa parte sempre di quell’apertura alla società e alle nuove opportunità che ho appreso col tempo.
La famiglia e gli amici di altri settori come vedevano la tua carriera?
La mia famiglia è composta da tre uomini, tutti ingegneri. Mia mamma invece era insegnante di italiano: è lei che mi ha trasmesso la passione per la scrittura e il sogno di diventare giornalista o scrittrice. I tre ingegneri, invece, hanno sempre guardato la mia carriera con un po’ di titubanza.
Ricordo quando feci leggere a mio padre la mia tesi di dottorato, e che quando gli chiesi cosa ne pensasse mi rispose “Non ci ho capito nulla!”. Ma almeno aveva fatto lo sforzo di leggerla tutta. Mio padre probabilmente aveva timore che rimanessi senza un lavoro. Penso che vedendo l’impegno e anche la determinazione che ci ho messo, ormai abbia capito che me la posso cavare. Almeno per ora. Poi magari tra qualche anno mi ritrovano nella capanna in Brasile! 😊
In Italia c’è ancora questa idea che chi fa certi studi ha un percorso lavorativo obbligato. Quest’anno sono 20 anni che lavoro nel settore della comunicazione, ma ancora qualche anno fa c’era qualcuno che mi diceva: ma perché non torni in Italia, non vuoi fare il concorso per diventare insegnante? Senza nulla togliere alla professione dell’insegnante, ma io faccio già un altro lavoro, ho fatto tutte queste cose, ho altri interessi, un’altra esperienza. Perché volete farmi fare l’insegnante a tutti i costi?
Sarei curiosa di capire come sono visti adesso i filosofi in Italia, vorrei leggere altre interviste che mi facciano capire che le cose sono cambiate. Studiare filosofia ti permette di sviluppare tante skills diverse, capacità di analisi, pensiero logico.
Come si riconosce un comunicatore della scienza?
Io non amo le definizioni o le categorie, ma possiamo individuare alcuni elementi chiave: sicuramente è una persona curiosa – questa almeno sono io. In secondo luogo è una persona che è attratta dal discorso della giustizia. Perché per me è inconcepibile che ci siano persone che non hanno accesso alla conoscenza. E quindi forse tanti comunicatori della scienza come me sono mossi da questo tema dell’inclusività. Inclusività come sinonimo di apertura, soprattutto verso i gruppi più vulnerabili. Quindi in sintesi: curiosità e apertura.
Come ti fa sentire fare questa professione?
Mi fa sentire una militante. Per me per certi versi è una missione.