#12 Pierdomenico: per una divulgazione narrativa al servizio della società
L'appassionato di Star Trek che diventa astrofisico è quasi uno stereotipo, ma Pierdomenico non ha affatto la testa tra le nuvole: finalmente parliamo anche di questioni economiche e amministrative
Pierdomenico Memeo è cosmologo, socio fondatore della cooperativa Ossigeno, educatore alla scienza, divulgatore e autore di libri-game. Abbiamo parlato delle origini del suo interesse per la scienza e della scoperta della comunicazione della scienza, dopo un percorso orientato alla ricerca. Sono emersi tanti aspetti legati ai valori di questa professione e alle motivazioni, personali e sociali, che accompagnano e danno coerenza alle diverse attività svolte e al network di relazioni costruito negli anni.
Raccontaci da dove è cominciato tutto. Il punto da cui ha preso il via la tua scelta professionale.
La mia passione per la scienza nasce dalla fantascienza. Sono uno astronomo, un cosmologo; tutto è nato dall'idea dell'esplorazione dell'ultima frontiera. Se mi sentirai citare Star Trek non è un caso.
Da bambino mi piaceva l'idea di esplorare, di capire come funzionavano le cose; immagino sia un bisogno molto comune, che però nel mio caso ha preso molto molto presto la forma elementare di “voglio fare lo scienziato”. Voglio usare la testa, gli occhi, le mani per capire come funziona il mondo, quali sono i meccanismi, come si aprono i giocattoli per capire come sono fatti dentro.
E poi, grazie alla fantascienza, a Star Trek, ai fumetti, alla cultura pop, questo desiderio si è indirizzato verso l'astronomia e la fisica.
La passione per la comunicazione è stata più tardiva.
Quando ero un po' più grande, al liceo o all'inizio dell'università, andavo sempre a raccontare ai miei amici, compagni di classe o persone che incontravo, le cose più interessanti che avevo imparato. Mi è stato anche fatto notare più volte con la frase “ma tu zitto non ci sai stare proprio!”
E quindi mi sono accorto che, in contemporanea con la passione per imparare, c'era anche la passione, quasi il bisogno, la compulsione di raccontare le cose che imparavo e che mi sembrano fighissime. Però è rimasta sempre sottotraccia, quindi la mia scelta dopo il liceo è stata di iscrivermi al corso di laurea in astronomia qui a Bologna, con l'idea di fare l'astronomo.
Ho seguito i corsi, mi sono laureato e poi ho fatto il dottorato, tutto il percorso accademico con l'idea di voler fare ricerca. Però lungo il percorso ho iniziato a incasellare piccole esperienze di comunicazione: l'associazione che organizza un incontro divulgativo o anche solo il momento in cui racconto quello che ho studiato ai miei amici che si occupano di tutt’altro.
E poi c’è la passione per la fantascienza: già durante l’università ho partecipato a tante convention di fantascienza, sì quelle con i cosplayer. La voglia di vivere il fandom di tante saghe, di raccontare storie mi è entrata dentro e si è unita all'idea della scienza.
C'erano un po' queste due anime che all'epoca dell’università vivevo un po' separatamente.
A conclusione del dottorato, mentre mi stavo guardando in giro per il postdoc, ho iniziato a fare l'animatore di un festival scientifico a Bologna, “La Scienza in Piazza”, e in quel brevissimo tempo ho capito: ok, è questo che voglio fare.
E come ti definisci? Che lavoro fai?
È un po' difficile dare un termine. Io uso il termine divulgatore perché è quello che è entrato nella vulgata. Non mi sento a disagio col termine divulgatore, però chiaramente una cosa è fare una conferenza a un pubblico generale, una cosa è andare in una classe di qualsiasi livello scolastico come invitato per tenere un laboratorio, che è quello che mi capita più spesso di fare. Nell’ambito scolastico si usa il termine “esperto” che però non vuole dire niente. Quando entro nelle scuole, io mi considero un educatore alla scienza. Il punto dell'attività nelle classi non è tanto insegnare, quanto aprire nuovi occhi; non tanto lasciare la nozione quanto sentirsi dire “non l'aveva mai vista da questo punto di vista!”. Si tratta di fornire opportunità che magari nel normale ambito scolastico non hanno mai avuto.
Come è proseguita la tua carriera dopo questa scoperta?
Quando ho deciso che questo doveva essere il mio mestiere, ho fatto una riflessione anche economica, perché comunque è un mestiere in cui non c'è nessuna garanzia, non c'è nessuna struttura che ti permetta di percorrere una carriera, ma decisi di provarci comunque. A livello personale, mi piaceva tanto fare ricerca, però mi sentivo un po' un ingranaggio in una macchina molto grande, mentre invece nella divulgazione sentivo che potevo fare la differenza. Potevo essere un scienziato discreto, uno tra i tanti nomi di un’enorme pubblicazione scientifica, frutto di ore, giorni, mesi di analisi di dati. In cosmologia funziona così, con queste grandi survey frutto di collaborazioni internazionali e mi piaceva, però sentivo che la mia identità andava dispersa: appunto un ingranaggio in una grande macchina. Si può fare, ha le sue soddisfazioni, il momento in cui dici “ah, ok, questa cosa l'ho capita”, però non sentivo di poter essere brillante come invece molti miei altri colleghi e colleghe nella ricerca pura.
Però ero la persona alla quale i colleghi venivano a dire “secondo te questa presentazione funziona? Si capisce che cosa sto spiegando?”, “Secondo te questa slide è chiara oppure c'è troppa roba o troppo poca?” Evidentemente da qualche parte in me c'era una predisposizione alla comunicazione.
Quasi percepita prima dagli altri che da te…
Esatto. Io sapevo che mi piaceva chiacchierare, mi piaceva raccontare, ma non l'avevo mai visto come una parte del mestiere.
Era una cosa personale, così come mi piace, chessò, la pizza, nel senso è una di quelle cose che non pensi che possano rientrare nel mestiere vero e proprio, nel lavoro per cui ti pagano. Invece quando ho iniziato a fare il divulgatore mi sono detto “sono più bravo a fare questo piuttosto che a fare ricerca pura!”
Quanto tempo fa hai cominciato a fare il divulgatore?
Era il 2010 quando ho terminato il dottorato, 15 anni fa, e la divulgazione scientifica era molto diversa: non c'era tutta questa esposizione mediatica, i social in realtà erano appena abbozzati e non venivano utilizzati come adesso. C'era Facebook, ma era fatto di gente che scriveva “oggi è una bella giornata, ho fatto una passeggiata”, o Instagram dove si mettevano le foto delle vacanze e poco altro.
Era ancora difficile spiegare cosa facevo. Quando dicevo che facevo il divulgatore le persone mi rispondevano “Ah, come Piero Angela!” e io dovevo spiegare che, no, no, io facevo tutta un'altra serie di attività. Altre volte invece fraintendevano completamente: “ah quindi fai l'informatore del farmaco!”. No, non so neanche come si prende un'aspirina. Oppure: “Ho capito: fai l'animatore, come nel villaggio vacanze”.
No, grazie per la fiducia, ma non ho proprio il physique du rôle per fare l'animatore al villaggio vacanze!
E che cosa ti ha fatto perseverare?
Anche se all’epoca era difficile da raccontare, per me è stata una folgorazione: ho detto “ok, questo è l’ambito in cui posso fare una cosa che mi piace e che sento utile”.
Perché ho idea che tante persone che non amano la scienza, tanti ragazzi e ragazze che non si sentono portati per la scienza, lo fanno per mancanza di contatto personale con la disciplina. Sento che c'è bisogno di mettersi al servizio della comunità per parlare di scienza. Ecco, una cosa che sento molto è il dovere, quasi civico, di parlare di scienza con i ragazzi, le ragazze, con il pubblico.
Non credo che sia una questione di gap di conoscenze, ma è una questione di gap di emozioni, di relazioni personali con la scienza. E mi piace molto l'idea di poter formare questi ponti. Anche parlare con i colleghi che vivono la scienza tutti i giorni, tutto il giorno, e che non hanno idea che là fuori c'è un mondo in cui la scienza è qualcosa di strano, a volte anche di ostile, respingente.
Invece, secondo me, c'è bisogno di un ruolo civico: educativo, per quanto riguarda ragazze e ragazzi; e comunicativo, per quanto riguarda invece il pubblico generico, gli adulti. Servono persone che si mettano al servizio della collettività per colmare questo gap di relazioni personali, mettendoci la faccia, mettendoci il cuore, anche di fronte alle critiche, e ce ne sono tante, sul modo in cui viene fatta ricerca scientifica.
Quali critiche per esempio?
Il mio ambiente è abbastanza fortunato perché fisica, astrofisica, astronomia e cosmologia sono discipline che hanno un grande fascino di racconto e vengono accolte in genere piuttosto bene. Chiaramente chi si occupa di comunicazione medica o ricerca chimica, ha un lavoro molto, molto più duro da fare.
Però, nella medicina, ad esempio, le persone hanno una maggiore consapevolezza dell'impatto della ricerca nelle loro vite.
La domanda che invece sento fare rispetto all’astronomia è “ma ha senso spendere tutti questi soldi per la ricerca?”. Una domanda lecita, che è importante accogliere e alla quale dare risposte oneste. Quindi, senza nascondere che c’è una parte di curiosità intellettuale, però sottolineando anche il fatto che non solo ci sono ricadute tecnologiche, ma tutti i soldi spesi nella ricerca sono soldi spesi sulle persone.
Quando c'è una sonda spaziale che è costata un miliardo di dollari, non è che si prende la sacca con un miliardo di dollari, si mette sulla sonda spaziale e si lancia verso Saturno. Sono tutti soldi spesi per pagare persone che ci lavorano, che non sono solo ricercatori e ricercatrici, ma anche tutte le persone intorno a loro: chi lavora nella mensa, chi fa le pulizie, chi si occupa dell'amministrazione, chi si occupa dell'aspetto finanziario, persone che hanno diritto a essere remunerate per il loro lavoro.
Quindi, è normale che le sonde costino tanti soldi, ma non è la sonda in sé, è perché per arrivare a produrre quell'oggetto che viene lanciato su Saturno ci sono dieci anni di 10.000 persone che lavorano per permettere il risultato finale.
Parlando di etica (e deontologia), quali sono i valori che guidano la tua professione?
Tengo moltissimo all'oggettività, alla scientificità delle cose che scrivo, alla serietà che si deve all'argomento. L'autorevolezza passa se racconti i fatti e non le tue opinioni. Nel momento in cui traspare che stai parteggiando, rischi di perdere l'autorevolezza e a quel punto è molto difficile recuperare.
Trovo sbagliata la polarizzazione del discorso, perché più polarizzi un argomento, più diventa difficile farlo accettare a un pubblico più vasto, trovando un terreno comune.
È la responsabilità di essere una giornalista (ma anche una comunicatrice della scienza), non un’opinionista, la responsabilità di raccontare i fatti senza nascondere, senza dare particolari accezioni e nella maniera più onesta e trasparente possibile. E, se proprio si vuole esprimere la propria posizione a riguardo, di farlo in maniera chiara e trasparente.
Capisco perfettamente quello di cui parli, anche se forse è un aspetto un po’ trascurato dalla comunicazione scientifica quello dell’indotto della ricerca.
Non solo; alcune tipologie di ricercatori sono quasi figure astratte.
I medici e le mediche sono persone reali, che si incontrano perché si prendono cura di noi, quindi viene loro riconosciuto il valore e il costo del loro lavoro. Ma l'astrofisico no, non lo si incontra abitualmente. Il cosmologo o la cosmologa è come una figura eterea che vive nell'iperuranio, invece in realtà sono persone che mangiano, che hanno bisogno di fare la spesa, come tutti noi. Raccontare la scienza, fare divulgazione, non è solo raccontare le nozioni o raccontare le leggi o raccontare i fenomeni, è raccontare queste persone. Secondo me è un aspetto importante che chi fa divulgazione dovrebbe ricordare.
Dopo questo momento del festival in cui hai avuto questo insight importante rispetto a quello che volevi fare, come ti sei mosso concretamente? Che direzione hai preso?
Dopo il dottorato sono tornato a Bologna - il dottorato l’ho svolto presso l’Università dell’Insubria e mi ero trasferito a Milano - e ho preso contatto con le varie realtà di divulgazione ed educazione che c'erano nella zona. Bologna è abbastanza fortunata da questo punto di vista, è una città culturalmente molto attiva. Il primo contatto è stato con la fondazione che organizzava il festival: aveva aperto un centro in cui si faceva educazione scientifica per ragazzi e ragazze con le scuole. Mi chiamavano in maniera abbastanza continuativa. Non era un lavoro a tempo pieno, avevo sostanzialmente una collaborazione a progetto con loro, quando c'erano delle attività mi chiamavano per un periodo prestabilito. Ho preso contatto con le associazioni di astrofili, un altro ambito un po' più strutturato per chi si occupa di astronomia, gli appassionati che fanno le osservazioni serali ai telescopi.
Io ho poche competenze tecniche di osservazione perché, dal punto di vista della ricerca, mi sono sempre occupato di analisi dei dati e teoria. Mi rendo conto di essere un po' atipico come astronomo, io il telescopio faccio fatica a sapere da che parte si guarda. Ho l’impostazione mentale di un fisico, il mio strumento è la matematica, è capire le cose più che guardarle. Quindi io ho trovato interessante non l'osservazione diretta ma l'esplorazione dei dati per riuscire a capire come funzionavano i fenomeni.
Il mio lavoro con gli astrofili non era tanto nella parte osservativa quanto nella parte narrativa. Il fascino dell’astronomia è legato anche a tutta la mitologia, le costellazioni, le leggende, i pianeti, le relazioni tra le varie culture che da sempre hanno osservato il cielo, ognuna con i suoi racconti e le sue leggende. Tutta questa dimensione culturale è vicina alla mia passione per la storia, la pop culture, il racconto.
Anche in questo caso si trattava di collaborazioni occasionali?
Anche con gli astrofili erano in parte collaborazioni più strutturate, altre volte eventi spot. Ma a un certo punto ho detto: “ok, è tutto molto bello però non posso continuare a fare tante cose a caso”. Sono stati circa 4 anni di lavori saltuari, guadagnando poco o niente, facendo dei sacrifici perché ci credevo molto. Bisogna dire che ho accettato queste condizioni lavorative perché potevo permettermelo, è anche una questione di privilegio e di opportunità. Ho avuto la fortuna che in quel momento la mia famiglia non aveva bisogno di uno stipendio fisso continuo, perché non avevamo per esempio un mutuo o un affitto da pagare, si mangiava pane e cipolla e andava bene così. Però dopo 4 anni ho avuto bisogno di iniziare a strutturare tutto il mio percorso.
E cosa hai fatto?
Le università e i centri di ricerca avevano degli uffici comunicazione, ma all'epoca si occupavano principalmente di ufficio stampa, che non era quello che facevo io. Gli enti che si occupavano di divulgazione non assumevano a tempo indeterminato o con contratti continuativi.
Allora con 4 colleghe con cui collaboravo all'epoca ci siamo detti: se nessuno ci dà una struttura professionale ed economica per guardare lontano e far diventare questi lavoretti una professione, allora ce la diamo da soli.
Abbiamo deciso di autostrutturarci, creando una cooperativa sociale, Ossigeno, e ci siamo autoassunti: a muoverci era il desiderio di professionalizzarsi, non solo per un riconoscimento economico, ma anche sociale. Per poter dire “ho un lavoro, è fatto così, c'è una struttura, pago le tasse, sono un cittadino a tutti gli effetti” con tutto il riconoscimento, non nel senso di prestigio, ma del fatto che la comunicazione della scienza non era una bizzarra passione di personaggi buffi che saltellano di fronte ai ragazzi in una classe, ma è un mestiere con le sue qualità, le sue strutture e le sue complicazioni.
Ci siamo immersi nel mondo della startup e da lì abbiamo imparato a gestire una cooperativa: da un punto di vista finanziario, economico, legale, giuslavoristico… è stato un periodo molto molto duro, perché durante il giorno facevamo gli educatori e i divulgatori e durante la notte nei weekend imparavamo e studiavamo la gestione di un'azienda.
All’epoca eravamo una realtà di cinque soci, ma con altri collaboratori esterni: la fortuna del mestiere è che si creano tante relazioni, tanti contatti, c'è quella persona che conosco e lo invitiamo per fare quattro ore di laboratorio di chimica organica che altrimenti non sapremmo fare. Quindi alla fine siamo arrivati ad essere cinque soci e a gestire, tra i collaboratori saltuari, una quarantina di persone. Magari per poche ore ciascuno, però devi gestire amministrazione e pagamenti, conoscere le differenze tra una partita IVA, una collaborazione occasionale, essere puntuali, parlare col commercialista, parlare con l'avvocato. Avendo creato una cooperativa sociale, potevamo appoggiarci alle associazioni di categoria, avendo la possibilità di parlare, per esempio, per le questioni giuslavoristiche non con un avvocato a caso, ma con un avvocato che collabora con le cooperative all'interno dell'associazione.
Oggi Ossigeno ha dieci anni e siamo tre soci, tutti in partita IVA. È una configurazione bizzarra per una cooperativa, ma prevista dallo statuto dell’azienda. Questo ci permette di avere delle comodità, organizzando il lavoro secondo le competenze, il tempo, la disponibilità, eccetera.
È cambiato il numero di soci e la modalità contrattuale? Come mai? È successo qualcosa in mezzo?
La pandemia è stato un momento abbastanza traumatico per chi fa questo mestiere, tanto che il nostro gruppo originale si è ridotto a 3 soci. Noi facevamo principalmente lavoro di educazione nelle scuole e per un anno-un anno e mezzo praticamente non abbiamo potuto mettere piede nelle classi.
Chi aveva la fortuna di poter fare anche altre attività di comunicazione, è riuscito a rimanere nell'ambito, chi invece lavorava solo con le attività nelle scuole, si è trovato in condizioni che non erano più economicamente sostenibili. Per me quello è stato il momento in cui ho riscoperto un'altra passione che avevo da ragazzo, la scrittura. Ho aggiunto alla divulgazione in presenza la scrittura di articoli di divulgazione.
Ho collaborato con Geopop, ad esempio, scrivendo articoli per il magazine. Attualmente collaboro ancora con Mondadori Education. Sono attività che svolgo come libero professionista al di fuori della cooperativa.
Le attività educative e di formazione insegnanti vengono gestite tramite la cooperativa. Invece, il lavoro di scrittura lo gestisco io direttamente con i contatti delle redazioni. Con la P.IVA possiamo organizzarci in questo modo.
Chiaramente funziona perché all'interno di Ossigeno lavoriamo tutti molto bene insieme e quindi il fatto che ciascuno di noi abbia delle piccole cose esterne legate a un ambito preferenziale - nel mio caso è la scrittura - ci permette di mantenere un equilibrio.
È un bilanciamento delicato che passa dal fatto che lavoriamo insieme da dieci anni, ci fidiamo gli uni degli altri, e quindi abbiamo trovato il modo di fare le cose per bene, con trasparenza: ognuno è consapevole del fatto che è un mestiere difficile, in cui bisogna avere tanti pezzi slegati a volte, ma che si muovono tutti nella stessa direzione. È come un aeroplano, finché tutti i pezzi si muovono nella stessa direzione, funziona bene. Se la gente comincia a perdere pezzi, o i pezzi del lavoro vanno in direzioni diverse, invece si rompe tutto.
Parliamo della tua passione per la scrittura…
La scrittura c'è sempre stata nella mia vita però nell'ambito ricreativo, legato alla pop culture: ho scritto per tanti anni fan fiction.
Scrivevo per mio piacere personale, per farlo leggere agli amici, ho fatto dei giochi di ruolo di scrittura, sono quelli in cui il master di gioco scrive la prima scena di un racconto, e poi ogni partecipante scrive una scena successiva.
È stato molto divertente e anche una palestra, per una competenza che poi ho potuto giocarmi durante la pandemia. Molti in quel periodo si sono buttati sui video, attraverso i social. Io non mi sento a mio agio, non ho le competenze tecniche, non penso di essere particolarmente brillante in video. Invece, ho riscoperto la scrittura, nella quale mi trovo più a mio agio, ed è diventato un altro fronte del mio mestiere di divulgatore. Ho scritto anche due libri-game per ragazzi.
Libri-game di divulgazione scientifica? Spiegaci meglio: di cosa si tratta?
Mi hanno contattato da Giunti - perché il nostro è un mestiere di relazioni, come dicevamo prima - dicendomi che pensavano di avviare una collana di libri game, in particolare una categoria di libri che si chiama Escape Book. La trama è legata sempre alla fuga da un luogo in cui si è rinchiusi. Mi dicono: “Visto che tu conosci bene i meccanismi sia della scrittura sia dei giochi, ti va di provare a fare questa cosa qui?”
Era il periodo in cui avevo iniziato a coltivare la scrittura come attività professionale, avevo voglia di mettermi in gioco a fare cose nuove e raramente mi tiro indietro di fronte alla novità.. E quindi ho provato.
Ovviamente non sono libri di divulgazione “canonici”, perché sono libri di lettura, di divertimento, libri-gioco appunto. Ma comunque parlo di scienza, perché io di quello so scrivere, di quello so parlare. Il primo, Gli abissi di Europa, è di ambientazione fantascientifica, il mio ambito più naturale.
Invece l’altro, Il labirinto della Sibylla che è uscito da pochissimo, è ambientato in un passato immaginario, in una specie di versione steampunk dell'Antica Roma, durante l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., in cui Plinio il Giovane e Plinio il Vecchio si ritrovano a vivere delle avventure in questo universo immaginario. La storia e soprattutto la storia della scienza mi affascinano molto, per questo ho scelto questo secondo tema.
Si può fare divulgazione anche con i libri game, a tuo avviso?
La divulgazione narrativa è qualcosa che mi piacerebbe continuare a coltivare, sto vedendo molto movimento in questo ambito editoriale. Il libro di divulgazione per ragazzi è spesso un po’ didascalico, “ora vi spiego la scienza”, “ora parliamo dei pianeti”, magari lo fa in modo impeccabile, ma secondo me c'è anche un altro modo di raccontare la scienza che non è spiegarla, ma coinvolgere emotivamente e a livello personale i lettori e le lettrici in un ambiente in cui la scienza è una componente importante.
Leggendo, ognuno è il protagonista dell'avventura, però in un mondo in cui la scienza, la medicina, la tecnica, l'informatica, o altre discipline sono importanti e quindi il racconto diventa un modo per far vedere l'importanza dell'ambito scientifico senza necessariamente porsi nei panni del professore, ma facendola vivere attraverso la simulazione narrativa.
È in pratica quello che è successo a te: la fantascienza è stata la strada d'ingresso per lo studio della scienza, ti ha dato la possibilità di aprire lo sguardo, vedere altri panorami.
Mi considero un privilegiato: casa mia era piena di libri, era piena di enciclopedie, i miei genitori lavoravano e quindi ho potuto fare l'università senza preoccuparmi di dover lavorare oppure di scegliere un percorso che fosse subito spendibile a livello economico. Mio padre ha fatto l’operaio, mia madre l'insegnante, però la nostra era una famiglia in cui la curiosità intellettuale era considerata in maniera positiva, e c'erano delle disponibilità economiche di base per soddisfarla. Questo non è detto per tutti.
Ho avuto l'opportunità di coltivare le mie passioni in maniera autonoma, senza la guida dei miei genitori perché non erano scienziati, però con il supporto personale della mia famiglia. Non tutti hanno questa possibilità e quindi considero importante poter offrire piccoli pezzi di privilegio a chi magari non ne può godere all'interno della propria famiglia, all'interno del proprio ambiente scolastico, del proprio ambito sociale.
Torna di nuovo questo tema del privilegio, delle opportunità che la vita ti ha donato ma che non sono scontate per tutti. Per te l’equità di accesso alla scienza è molto importante?
Io sento molto questa parte civica della divulgazione e di equità sociale, di cittadinanza, di partecipazione.
Se non si offrono spazi di partecipazione a livello educativo o a livello di comunicazione, in effetti si priva una fetta della popolazione di quello che io considero un diritto. Come l'accesso alla musica, l'accesso alla letteratura. Io li considero diritti umani.
Inoltre, una cittadinanza che conosce il funzionamento dei meccanismi di ricerca scientifica, che conosce come la scienza viene prodotta, le sue criticità e i suoi vantaggi, rappresenta un fattore di stabilità sociale, di partecipazione politica e di prosperità economica. Vediamo nel mondo situazioni in cui la scienza viene brandita come un'arma o osteggiata come un nemico. Un corretto rapporto con questo tipo di conoscenza, secondo me, è fondamentale per il funzionamento delle società. Ogni società deve regolarsi grazie al fatto che tutti i cittadini partono da una base di conoscenza e da un atteggiamento di non ostilità verso la scienza.
L'aspetto civico e sociale dell’educazione e della comunicazione scientifica è rilevante, proprio perché io, poi, nella società ci vivo e voglio una società che sia educata a livello scientifico, così come voglio che sia educata a livello economico o a livello legale.
Questo aspetto di senso civico e questa percezione della scienza come qualcosa di importante per la partecipazione e la cittadinanza, da dove ti arriva? Dici che è una cosa che è arrivata dalla tua famiglia o l'hai sviluppata nel corso del tempo?
Non saprei, la mia famiglia non ha una grande storia di partecipazione civica, quindi probabilmente non proviene da lì, anche se mi hanno trasmesso un senso di giustizia, che passa da una visione morale non religiosa: mi hanno insegnato a non fare male agli altri, ma adoperarsi per il bene di tutti. Il senso civico forse si è sviluppato perché ho frequentato tanti ambienti diversi, in maniera trasversale a diverse fasce economiche.
Poi, lavorare nelle scuole con ragazzi di diversi background familiari ed economici, mi ha aperto gli occhi su tante cose che a me sembravano ovvie, come il fatto di avere la cena in tavola tutte le sere.
Mi è capitato di lavorare in scuole con alto tasso di disagio e lì ho capito che conoscere la scienza non è un dovere, però è un diritto. Non tutti devono conoscere la scienza solo perché a me piace. Però chi la conosce deve aprire delle porte e lasciare la possibilità a chi ha avuto meno occasioni di poter entrare in questo mondo.
E i social? Rappresentano uno strumento di partecipazione democratica o no?
I social dal mio punto di vista sono stati una possibilità di conoscere e di leggere persone di diversi ambiti: sociologico, politico, economico; una possibilità di incontrare punti di vista diversi. Non per litigare, ma per fermarsi e dire “ok, io questa cosa non l'avevo mai considerata e non fa parte della mia esperienza. E se fossi io a non aver capito?”
I social sono una finestra su opinioni diverse, ma non è così comune questo atteggiamento di ascolto...
Una caratteristica di cui vado fiero è questo tipo di apertura, non correre subito alle conclusioni, non giudicare la persona sulla base dell’opinione che ha espresso. E anche se sono un chiacchierone, come avrai notato da questa intervista, non parlo mai senza fermarmi a riflettere prima di esprimere la mia opinione.
E riflettere, fermarsi, pensare a quello che si è letto e parlare con le persone, parlare con i ragazzi e le ragazze, parlare con gli insegnanti mi ha permesso di maturare una sensibilità, non voglio dire di classe, che poi sembro marxista, però sì, una consapevolezza sociale più ampia e stratificata, anche sulle lotte e le difficoltà che non ho vissuto personalmente. Facciamo un lavoro che ti mette a contatto con tante persone diverse, compresi quelli che vedono nella scienza “ufficiale” un nemico da combattere, come terrapiattisti o novax.
Ti è capitato di dover comunicare con questo tipo di interlocutore, ostile nei confronti della scienza?
Ho lavorato a un progetto con l'AUSL di Bologna e la regione Emilia-Romagna sulla comunicazione vaccinale durante i corsi pre-parto. C’erano medici e biologi come figure esperte, il mio ruolo era principalmente di moderazione, ma ci sono stati, diciamo, “veementi confronti". Io mi sentivo emotivamente coinvolto perché anche io ero diventato padre da poco, però d'altra parte vedevo la persona dietro alle opinioni e quindi mi veniva più facile pensare “se queste persone provano astio verso la scienza, i medici, le mediche, la medicina in generale, ci saranno dei motivi, non è che si sono ritrovati in quelle posizioni per caso. Probabilmente c'è stata una cattiva comunicazione, una responsabilità dell'ambiente scientifico, o magari non c'è stata proprio comunicazione”. Arroccarsi su posizioni paternalistiche non funziona. E poi quando ci sono confronti diretti bisogna guardare alle persone: le persone non sono stupide, hanno dei motivi personali per cui si arroccano su alcune posizioni.
Qual è l’errore della comunità scientifica? Che cosa scatena ostilità in base alla tua esperienza?
Spesso si tratta di persone che hanno assorbito una narrazione che parla di vantaggio economico da parte del mondo della scienza e della comunicazione della scienza, spesso ci si sente dire “ma chi ti paga?”. Però in realtà la stessa cosa vale per la comunicazione anti-scientifica: anche quella è un business.
Credo che la scienza debba guardarsi dentro con grande accuratezza e lucidità, rispetto ai propri conflitti di interesse, perché tutti siamo inseriti in un sistema in cui per vivere sono necessarie delle compensazioni economiche, bisogna essere molto trasparenti su questo.
Come divulgatore è importante che anche io mi ponga delle domande su questo.
Nelle scuole, per esempio, mi sono capitati progetti sponsorizzati da aziende: io accetto la sponsorizzazione nel momento in cui ho piena libertà di progettazione, di ricerca e di comunicazione. Propongo un progetto che può essere finanziato dal pubblico o dal privato, però il progetto è responsabilità mia e dei miei colleghi che lavorano con me.
Lo sponsor o il partner accetta il progetto o lo rifiuta, non deve intervenire sui contenuti o sulle modalità, altrimenti verrebbe meno tutta la deontologia della comunicazione della scienza e dell'educazione scientifica. Ho costruito la mia professionalità in 15 anni di lavoro e non voglio bruciarmela, è proprio una questione di rispetto per il proprio mestiere. È un argomento delicato, ogni divulgatore mette la linea di confine dove si sente a proprio agio: c'è chi rifiuta completamente di fare sponsorizzazioni e partnership, io la metto sulla libertà deontologica. La sponsorizzazione deve essere palese, non può essere occulta, e la libertà del progetto deve essere completa.
Ci sono delle persone che nel tuo percorso che sono state particolarmente rilevanti?
È molto facile parlare di figure di riferimento generale, Piero Angela e molta divulgazione anglosassone, Carl Sagan, Neil deGrasse Tyson… guardare ai maestri ti permette di migliorarti.
In Italia, Beatrice Mautino, Dario Bressanini, Barbascura X, il gruppo di Chi ha paura del buio?… sono tutte persone di cui io ho iniziato a seguire la comunicazione, a leggerli, ascoltarli. Poi sono diventati quasi degli amici, persone con cui posso discutere amichevolmente. Forse più che nomi specifici, è l'idea della comunità italiana della divulgazione.
Ho letto a questo proposito nell’intervista di Riccardo Lucentini, una cosa che mi ha fatto riflettere: lui da comunicatore istituzionale ha raccontato di sentirsi incluso, ma non parte, nella comunità della divulgazione. La mia esperienza invece è diversa, io mi sento molto parte della comunità della divulgazione.
So che se ho un dubbio etico ci sono persone alle quali posso rivolgermi. Se mi serve la revisione di un testo perché non sono sicuro di dirlo nella maniera migliore, ci sono diverse persone alle quali posso fare una telefonata o mandare un whatsapp e dire “mi dai un'occhiata a questa cosa e mi dici se secondo te si può migliorare?”. Incontrarli ai festival è un momento di confronto e di partecipazione e anche di riconoscimento reciproco che considero fondamentale.
Secondo te quali sono stati i passi che ti hanno permesso di inserirti (e di farti sentire inserito) in questa comunità?
Ho girato tantissimo per festival, proprio per andare a conoscere le persone: ho voluto fortissimamente costruire un rapporto diretto umano con chi si occupava di divulgazione e di comunicazione, magari in altri ambiti.
Seguivo le conferenze e poi andavo a presentarmi. Sono andato a Macerata, a Roma, a Venezia, a Torino: fare tanti chilometri per conoscere queste persone mi ha centrato a livello umano e personale, mi ha arricchito.
Centrato nel senso che ho avuto conferma di non essere un pazzo solitario: siamo in tanti a condividere in parte le pratiche, in parte gli obiettivi, e in maniera molto profonda le motivazioni, le emozioni e le esperienze.
Anche a livello di emozioni, come ti fa sentire essere parte di questa comunità?
Mi fa sentire che esisto, che non sono un'eccezione che rincorre qualcosa di impossibile, che c'è una collettività.
Mi fa sentire protetto dalle esperienze altrui: reputo la condivisione una cosa importante, anche se poi ci si vede per un giorno ogni tre mesi. La stessa cosa vale anche con i colleghi di Ossigeno. Sapere di poter contare su di loro quando c'è un momento di difficoltà anche umana, personale: so che c'è qualcuno che mi può sostituire. Se c'è un progetto in cui mi trovo in difficoltà perché è troppo grosso, so di avere persone che mi supportano, mi aiutano, ci diamo il cambio a vicenda se c'è bisogno, mi danno prospettive nuove, mi danno idee. Noi ci parliamo per ore tutti i giorni. Whatsapp, telegram, mail, call, telefonate continue perché è un mestiere in cui è molto facile sentirsi isolati e sentirsi accerchiati da messaggi negativi, dalle difficoltà economiche, sociali. Sapere di poter contare sulle persone è per me un requisito indispensabile per fare questo lavoro.
Stai descrivendo un network, una comunità con relazioni paritetiche…
Il network italiano è molto democratico, secondo me, io lo percepisco così e credo che sia una delle cose che lo rendono effettivamente efficace.
Anche le persone che io prima guardavo come delle icone, Dario Bressanini per fare un esempio, è una persona con cui c'è uno scambio diretto, con cui posso effettivamente parlare a tu per tu.
Mi è stato detto anche “ma com'è che conosci tutte queste persone famose, quando tu invece non sei famoso?”
Perché la divulgazione in molti casi è vista come andare in televisione o essere molto presente sui social, avere un certo tipo di risonanza e di riconoscibilità.
Però in realtà è anche un lavoro “foot on the ground”, andare sul territorio, nelle scuole, facendo attività meno glamour. Ma questi divulgatori più riconoscibili sono consapevoli dell’importanza del lavoro invisibile di molti altri colleghi.
Non a tutti piace essere così visibili. Detto per chi ama la cultura pop: è come in Game of Thrones, ci sono gli eserciti che combattono e vincono le battaglie famose, ma c'è anche la Guardia della Notte che presidia la Barriera, senza corona e senza gloria.
Non c'è invidia e non c’è competizione, anzi proprio da parte delle persone che sono più riconoscibili, io ho sempre trovato una grandissima riconoscenza e riconoscimento del lavoro di guardia alla Barriera.
Stai descrivendo un contesto idilliaco, così pacifico e pacificato. Davvero non ci sono conflitti in questa comunità?
Ci possono essere disaccordi o conflitti personali, certamente. Ma sono episodi, non è una questione strutturale della comunità secondo me.
Invece, possono esserci figure pubbliche, quelli che una volta si chiamavano opinion leader, che danno un'immagine controproducente della scienza e della comunicazione della scienza. Spesso non si tratta di competenze ma di personalità: persone che si compiacciono più della loro riconoscibilità che dell'utilità del loro lavoro, possono essere un po' pericolose, possono creare polarizzazione.
In un altro ambito, a livello di comunicazione istituzionale o all’interno delle istituzioni scolastiche, a volte possono esserci delle resistenze, come se ci fosse la paura che questa categoria che si sta formando e che si è già formata, la grande categoria della divulgazione, vada a invadere spazi che tradizionalmente invece appartenevano a professioni più riconosciute, più strutturate.
Per esempio nella scuola possono esserci insegnanti che si vedono in contrapposizione all’educatore scientifico. Ci domandano: “Perché volete venire qua e fare il mio lavoro? Perché volete insegnarmi il mio mestiere?” E a volte è complicato spiegare che noi facciamo un lavoro diverso che va a esaltare il lavoro della didattica, del docente, non a oscurarlo o a contrapporsi.
In queste situazioni di contrapposizione con altre professioni o di mancato riconoscimento, mi rendo conto che purtroppo fattori come l’età o il genere fanno la differenza. Invecchiando ho visto che le persone trattano quello che dico in maniera diversa.
Tantissime volte è capitato di andare in una scuola o in un contesto più istituzionale, accademico e sentirmi chiamare professore e poi c'era “la ragazza”. È una cosa terribile, anche perché io ero lì magari ero solo di supporto, a “lavare le provette” come dico sempre, e invece era la collega ad avere un master, un dottorato in biologia molecolare e genetica. Io ho il privilegio di essere maschio, bianco, etero, cis, quindi non vivo queste condizioni di marginalizzazione e in cui la propria professione intellettuale viene sminuita dall'aspetto o dai gruppi di appartenenza. Però le vedo sugli altri, sulle altre, e ho imparato a vederle.
Io dico sempre: fare scienza non è solo per i nerd, non è solo per i secchioni. Poi mi guardo e dico, “vabbè, ok, io sono esattamente quello: l'astronomo a cui piace Star Trek, è un nerd, fa i giochi di ruolo e ha i capelli bianchi”. Io sono lo stereotipo, ma proprio per questo credo che sia una mia precisa responsabilità ricordare che non tutti sono così, e tenere la porta aperta per tutti gli altri.
Come ti fa sentire?
In realtà, io mi sento molto a mio agio con il mio stereotipo.
Non combatto l'idea di essere un nerd, di essere un secchione che sa tante cose che non sa neanche da dove arrivano, perché le ho lette una volta vent'anni fa in un libro e me le ricordo perché erano fighissime. Non vivo con imbarazzo il mio entusiasmo, il fatto che quando racconto cose che mi piacciono saltello e muovo le mani e sono felice. Lo vivo con massima serenità.
Però, proprio perché incarno lo stereotipo, credo che sia importante per chi come me ha un privilegio far notare quando questo non è esteso ad altri che invece hanno le stesse competenze, ma non hanno lo stesso privilegio. Quindi farlo notare e mettermi in prima fila a ricordare che è importante essere inclusivi per le identità sociali, economiche, culturali, linguistiche. Forse detto così sa un po' di white savior. Però faccio quello che posso, con quello che ho, nel miglior modo che riesco a trovare.
Ma tu non hai mai subito l'ingiustizia nella tua vita?
Probabilmente sì, ma ho la fortuna di non ricordarmi niente! Ho la memoria esaurita dai libri. Mi ricordo perfettamente quant'è la capacità di emissioni in gigajoule dei Phaser dell'Enterprise, ma poi non mi ricordo cosa ho mangiato ieri a pranzo.
Posso dire che l'unica esperienza che ho sperimentato in prima persona è probabilmente quella legata alla mia altezza. Io sono un piccoletto. Sono alto 1,60 scarsi in una giornata buona e questo per un uomo può essere un fattore sminuente.
Non è una cosa che io ho vissuto mai male però mi sono accorto che questa cosa era utilizzata per sminuirmi. Questa è una piccola cosa, quindi non ho vissuto davvero l'ingiustizia di essere penalizzato per una caratteristica personale, però mi sono accorto del tentativo. E forse questo mi ha reso più consapevole quando lo vedo sugli altri.
Credo però che quello che mi rende più sensibile, sia la mia capacità di ascolto. Ascolto e mi fermo a riflettere: quando le colleghe mi raccontano delle difficoltà che vivono, o quando lo studente mi racconta che ha preso cinque perché parla male italiano e non perché non aveva studiato, ascolto e provo a prendere in considerazione una cosa forse difficile da ricordare: che non tutto gira intorno a me, e che le esperienze degli altri non hanno meno valore solo perché non coincidono con la mia.
Prima hai accennato a un master di comunicazione: quando lo hai fatto e perché?
Il master di comunicazione della scienza è arrivato molto tardi nella mia carriera, nel 2021-2022. Era il master in giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza dell’Università di Ferrara. L'ho fatto perché dopo dieci anni di esperienza lavorativa sentivo che mi mancavano dei pezzi.
Seguire delle lezioni con dei professori, delle professoresse che parlano di comunicazione della scienza, di storia della filosofia della scienza, di diversi paradigmi della comunicazione e lo fanno a livello accademico, era un'esperienza che mi mancava e ne sentivo il bisogno. Ho detto: per diventare più bravo, per fare un passaggio di livello, non mi basta essere un maneggione, uno che ha imparato il mestiere facendolo, sbagliando e trovando delle scorciatoie, sentivo il bisogno di un frame, di una cornice più teorica.
Che cos'è che fa buona comunicazione? Volevo padroneggiare l'impianto teorico della comunicazione della scienza perché è importante e mi mancava.
Inoltre è stata anche un'occasione di networking: mi ha permesso di conoscere persone che, al contrario di me, lavoravano nelle redazioni di giornali, negli uffici stampa e nella comunicazione istituzionale. E visto che il nostro è un mestiere che vive di relazioni e di conoscenze, conoscere persone che non erano nel mio ambito ristretto ma erano nell'ecosistema più ampio della comunicazione della scienza è stato un plusvalore.
Nell’ambiente universitario, hai visto qualche cambiamento nei confronti della comunicazione dai tempi del tuo dottorato?
L'esperienza del dottorato è stata un'esperienza totalizzante. Per tre anni e mezzo lavoravo qualcosa come 15 ore al giorno. È stata anche un'esperienza umanamente complicata perché l'ambiente era molto competitivo. Devi lavorare, lavorare tanto, a testa bassa. Si impara tantissimo, però avevo quella sensazione di essere un numero e di non essere valorizzato per le mie capacità, per le mie potenzialità. Mi veniva detto: sì, ma tu perdi tempo in tante altre cose che non c’entrano niente con la ricerca.
E invece sono state poi quelle che nel mestiere divulgatore mi hanno dato quella spinta in più. La capacità di comunicare, la voglia di raccontare, una cultura ampia. Mi piace la mitologia, mi piace la cultura pop, mi piace il racconto. Questa è una cosa che è valorizzata nella divulgazione. Mentre invece nel dottorato e nell'ambiente accademico venivano considerate delle perdite di tempo.
Adesso al contrario le università mi contattano per fare dei seminari di comunicazione della scienza a studenti, dottorandi e dottorati, ricercatori. Quindi negli ultimi dieci anni io ho certamente visto un'evoluzione. Soprattutto negli ultimi cinque, dal 2020: forse la pandemia ha cambiato i nostri rapporti con la comunicazione, ma vedo molta più consapevolezza anche in ambiente scolastico, in ambiente accademico e in ambiente istituzionale in generale. Un maggiore riconoscimento di queste professionalità orizzontali, con interessi trasversali.
Io ho sempre amato tante cose diverse. Trovo bellezza e interesse in ambiti molto diversi.
Nel vedere crescere una piantina in un bosco, nel parlare con una persona che ha un'esperienza di vita diversa perché viene da un altro paese. E tutto questo merita di essere raccontato con trasporto, con entusiasmo, con passione. Per far vivere questa bellezza e la meraviglia dello scoprire che c'è un senso nelle cose, c'è senso nello sperimentarle e nel condividerle.
Bene, ultimissima domanda. Volevo chiederti se c'è qualcosa che vuoi aggiungere, qualcosa magari che ti è venuto in mente raccontando, ripercorrendo tutti questi fatti della tua vita. C'è qualcosa che ti sembra di aver capito meglio raccontando?
C'è l'idea che effettivamente, guardando il mio percorso, ho fatto bene a fare le cose che mi piacevano. Non è una perdita di tempo coltivare interessi fuori dal proprio ambito.
Forse quando raccontiamo ai ragazzi nelle scuole di seguire le loro passioni, di seguire i loro interessi, le loro curiosità, allora forse non è retorica. Non è perché è la cosa che si deve dire, perché tutti la dicono, ma è vero. E il ruolo degli adulti, dei docenti, delle famiglie, della società in generale è di rimuovere gli ostacoli. Nella Costituzione c'è scritto, “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Forse, come comunità della divulgazione scientifica, dobbiamo ricordarci che anche il nostro lavoro è parte di questo grande esperimento democratico e civile e possiamo dare il nostro contributo per un futuro migliore. Come in Star Trek, ovviamente!