#11 Marco, esploratore di mondi per una divulgazione scientifica “senza limiti”
Da cronista della guerra di camorra negli anni ‘90, a reporter scientifico internazionale, a sperimentatore di nuovi media per raccontare la crisi climatica: ecco la storia di Marco Merola
Classe 1974, origini napoletane ma trapiantato a Roma da anni, Marco Merola è giornalista e divulgatore scientifico con una lunga esperienza in testate italiane e internazionali come GEO, National Geographic, FOCUS, BBC Science, Sette (Corriere della Sera), Venerdì (La Repubblica), Illustreret Videnskab, Science et vie, Science Avenir. Nel 2018 ha creato Adaptation.it, il primo web documentary dedicato interamente all’adattamento al cambiamento climatico. Insegna “Reporting and Communication” al Master del Politecnico di Torino su soluzioni di adattamento e mitigazione del climate change, e “WebDoc e narrazione giornalistica digitale” al Master in Divulgazione scientifica dell’Università di Siena. È TEDx speaker e autore di podcast, tra cui ADAPTATION Italia (con Audible). Prossimamente lancerà il videopodcast "Krisis. L’era delle scelte", che parla di crisi climatica attraverso le storie personali di esperti e divulgatori.
Marco, raccontaci come è cominciato il tuo percorso nel mondo della comunicazione della scienza.
Io non nasco giornalista scientifico, vengo dalla vecchia scuola, anche per una questione anagrafica: ho cominciato a muovere i primi passi nel mondo giornalistico nel ’92, non appena concluso il liceo. Scrivere per me è una passione urticante, lo è sempre stata: dalla narrativa, alle poesie, al progetto futuro di scrivere un libro di racconti di viaggio. La scrittura è il mio tratto distintivo, come lo è anche la voglia di informare, di raccontare le cose alle persone. Oltre a questo, c’è l’amore per la scienza. Da ragazzino, oltre alle figurine dei calciatori, collezionavo con attenzione maniacale i fascicoli De Agostini sulle grandi scoperte scientifiche e archeologiche. Quelle uscite settimanali sono state la prima epifania di ciò che sarei voluto diventare e di ciò che avrei voluto raccontare: la scienza, le civiltà antiche, gli scavi, le ricerche di città perdute e stili di vita dimenticati. Nonostante ciò, ho seguito un percorso di studi integralmente umanistico, liceo classico prima, laurea in giurisprudenza poi. La scienza non ha mai avuto un ruolo centrale nella mia formazione, anche se in qualche modo è sempre stata parte di me. Provengo da una famiglia di astronomi, matematici, fisici: ho cugini che lavorano in Francia dove si sta costruendo la centrale nucleare europea più innovativa, uno zio che ha fatto parte del famoso “gruppo di Rubbia” al CERN di Ginevra, e mio nonno, astronomo e matematico all’Osservatorio astronomico di Capodimonte, che negli anni ‘20 ha firmato uno dei primi paper mondiali sull’eclissi di Luna. Insomma, la scienza era tutta intorno a me, prima o poi avrebbe attecchito.
Mi dicevi però che non hai iniziato come giornalista scientifico…
All’epoca chi voleva fare il giornalista ed era alle prime armi non poteva scegliersi un settore specifico né pensare di occuparsi sempre e solo di una cosa. Negli anni ’90 dovevi prima scrivere di tutto, fare la gavetta, e solo in seguito, forse, avresti potuto guadagnarti il diritto di scrivere di quello che veramente ti appassionava. Io ho iniziato con la cronaca nera, a Napoli, in piena guerra di camorra. Non avevo fatto scuole di giornalismo, ma volevo fare il giornalista, e allora mi sono buttato sulla strada, nel vero senso della parola. All’epoca si contavano 150 morti l’anno e i giornali cercavano giovani, anche inesperti, per riuscire a coprire l’enorme numero di notizie che si accavallavano giorno dopo giorno. E io mi sono trovato in campo in uno dei momenti più caldi del nostro Paese, una guerra di malavita con dei risvolti profondi anche a livello nazionale. Ho iniziato così, seguendo storie di gente che veniva uccisa per strada, e devo tutto a quell’esperienza perché è stata una grandissima palestra di giornalismo. Andavi sul luogo di un delitto e dovevi ricostruire la storia della vittima, mentre i potenziali testimoni ti dicevano che non avevano visto né sentito niente. E tutto questo senza poter usare internet, i cellulari, la mail. Si andava in questura, si ricevevano le veline, o arrivavano telefonate anonime in redazione per segnalare fatti di sangue. Io ero inesperto, potevo contare solo su un po’ di fortuna e tanta sfrontatezza, e mi è andata pure bene. Ogni tanto beccavo la pista giusta, il dettaglio che gli altri non avevano, e quindi cominciavo a farmi notare, i colleghi anziani mi dicevano “fatti vedere più spesso in redazione”. Ovviamente si faceva tutto gratis, ma intanto imparavo. Scrivevo per giornali locali, quelli più piccoli, che campavano di cronaca nera, e piano piano iniziai a occuparmi di un po’ di tutto: spettacoli, sport, cronaca varia. Ogni tanto riuscivo a infilare un pezzo che mi interessava davvero, ma in quelle testate, ovviamente, la scienza non aveva un grande spazio.
Sul finire degli anni ’90, ho deciso che quei 7-8 anni di gavetta potevano bastare: via la cronaca, via i quotidiani. Volevo scrivere sui magazine, sui periodici, volevo avere il giusto spazio per raccontare, con adeguato livello di approfondimento, ciò che mi appassionava. Dunque, quando ero all’università, tra una lezione e l’altra andavo al telefono pubblico e chiamavo le redazioni delle testate per cui avrei voluto scrivere – Il Venerdì, Panorama, l’Espresso, Sette – ogni giorno, le stesse persone. Dopo mesi, quella che sarebbe diventata una collega, probabilmente presa da sfinimento, ha ceduto: “Ok, se hai storie da Napoli, mandacele.” Il mio primo pezzo, su Panorama, fu sul caffè, aveva un taglio originale, riuscii a trovare delle storie molto particolari legate alla tradizione napoletana. La storia piacque e da lì iniziai a fare il corrispondente da Napoli e poi da tutto il Sud. A Milano mi guardavano come se fossi un esploratore venuto dal deserto, o un alieno: “Ah, ma per caso puoi anche muoverti in Puglia? In Basilicata, in Calabria?”. Questa cosa mi straniva ma mi faceva ridere, intravedevo una grande opportunità di lavoro.
Quindi sei partito dai quotidiani e poi sei approdato ai periodici. Ma c’è stato un momento in cui ti sei detto: “Voglio fare il giornalista scientifico”? Qualcosa che ti ha fatto scattare quella molla?
Sì, ricordo il momento preciso e anche il luogo: un aeroporto. Non saprei dirti se fossi a Capodichino o Fiumicino, ma stavo attendendo di imbarcarmi e, come sempre facevo durante quei tempi morti, mi aggiravo in una edicola ben fornita di stampa internazionale. Quando andavo in Francia o Germania, impazzivo per quegli stand traboccanti di riviste specializzate sugli argomenti più disparati: astronomia, archeologia, storia medievale… Quei paesi, per me, avevano una vera cultura della divulgazione scientifica. Mi chiedevo spesso se tutti quei giornali si vendessero davvero (ma se erano lì, un mercato evidentemente c’era) e passavo il tempo sfogliando e comprando grandi quantità di riviste di quel tipo. Mi servivano per documentarmi, per trovare ispirazione, ma anche per capire come venivano pensate. Andavo a leggermi i colophon, volevo capire chi faceva cosa: chi era il caporedattore, chi scriveva, chi fotografava. E lì, in tante riviste, compariva spesso questo nome: Eurelios. Era un’agenzia di stampa parigina, l’unica che in Europa, alla fine degli anni ’90, si occupasse di scienza, fondata da Philippe Plailly, uno dei migliori fotogiornalisti scientifici dell’epoca.
Questa cosa mi incuriosì molto, iniziai a cercare informazioni, volevo sapere se ci fosse modo di collaborare con loro, ma all’epoca non era affatto facile, su internet non si trovava praticamente nulla. Poi recuperai un numero di telefono e chiamai usando una scheda telefonica ricaricabile per l’estero. Contattai l’agenzia con molta faccia tosta: mi presentai come reporter italiano, specializzato in scienza, e mi proposi per una collaborazione. Forse avevano già altri contatti in Italia ma ero abbastanza certo che ci fosse spazio per nuove proposte: parliamo del 1998-99, nel nostro paese giornalisti scientifici praticamente non ce n’erano. Soprattutto professionisti che fossero in grado di raccontare la scienza in modo evoluto, con dei veri e propri reportage. In più, sapevo che la mia generazione non era particolarmente forte sull’inglese scritto e parlato, mentre io potevo scrivere anche in lingua e, soprattutto, collaboravo già con vari bravi fotografi con cui realizzavamo servizi completi di foto e testi. Poterli proporre all’estero sarebbe stato magnifico. Dopo quella telefonata, insomma, Eurelios mi invitò a Parigi: avrei potuto finalmente cominciare a lavorare come giornalista scientifico.
Cosa è successo poi?
Cominciai a fare la spola tra Napoli e Parigi, una volta al mese circa, quello che le mie finanze permettevano. Quando ero in Eurelios partecipavo alle riunioni di redazione, osservavo il modo in cui scovavano gli articoli più interessanti tra pile di giornali di tutto il mondo, li ritagliavano a mano e poi immaginavano di realizzarci dei reportage, scrivevano proposte, le mandavano ai caporedattori di ogni angolo del pianeta. Quando un’idea era davvero forte investivano in produzioni originali (per esempio mini documentari, servizi video, inchieste). In Francia, che ha una fortissima tradizione di comunicazione della scienza, quel tipo di contenuti scientifici per la TV già circolava, mentre in Italia, allora come oggi, sembrava fantascienza. Quell’esperienza fu folgorante per me: capii che era esattamente ciò che volevo fare, raccontare la scienza viaggiando, realizzare reportage, esplorare temi diversi. E infatti, per quindici anni, con loro ho fatto di tutto. In seguito l’agenzia ha chiuso, ma io ero rimasto in contatto con alcuni magazine con cui iniziai a lavorare direttamente.
Così entrai in relazione con molte testate internazionali e per quasi vent’anni ho lavorato a stretto contatto con il National Geographic, sia l’edizione italiana, nata nel 1998, sia quelle europee e persino con la Society, a Washington. Queste collaborazioni mi hanno dato modo di girare il mondo e di raccontare storie straordinarie: la dimensione romantica e quella professionale del mio lavoro erano finalmente fuse in una cosa sola. Verso il 2017, però, ho iniziato a sentire la stanchezza. Dopo oltre vent’anni da freelance, in un panorama editoriale profondamente cambiato (e vivendo comunque in Italia), ho visto crollare molte certezze. I quotidiani, i periodici, i modelli tradizionali di editoria non avevano più senso. Le vendite erano crollate. Il pubblico sempre più disabituato a leggere, il tasso di analfabetismo funzionale e di menefreghismo culturale in evidente crescita.
Come hai affrontato questo cambiamento nel panorama del giornalismo scientifico?
Io ho vissuto forse l’ultima coda di un giornalismo ancora “ricco”: di idee, di entusiasmo e, cosa non secondaria, ricco anche economicamente. Parlo del periodo che va grossomodo dal 1999 al 2009–2010: l’ultimo decennio d’oro del giornalismo, in cui si lavorava ad alti livelli sia per qualità che per compensi. All’epoca, essere freelance significava avere un certo privilegio, non trovarsi in una condizione precaria come purtroppo accade oggi a molti colleghi più giovani, costretti ad accettare compensi ridicoli. Io insegno in due master universitari e dico sempre agli studenti che svendere il proprio lavoro è il modo più rapido per mortificarsi e finire per odiare la propria scelta. Raccontare il mondo e la scienza è una cosa bellissima ma dev’essere anche sostenibile, altrimenti è solo un sacrificio inutile a vantaggio degli editori. Io ho sempre detto che avrei continuato a lavorare nel giornalismo “classico” solo finché mi fosse stata garantita la dignità economica.
E fino al 2009–2010, si poteva eccome, era un altro mestiere. Per reportage importanti si negoziavano cachet da 1.000, 2.000, anche 3.000 euro, solo per il testo. Lavori seri, ben pagati, che ti davano la voglia di fare questa professione. Poi, dopo la crisi del 2008, arrivata nell’editoria un paio d’anni dopo, sono iniziati i tagli dei compensi: prima il 25%, poi il 50%, poi hanno tolto direttamente uno zero. Quello che prima ti fruttava 1.500 euro, diventava 150. Allora ho detto basta. Io vivo del mio lavoro, non ho eredità, non ho parenti giornalisti, e ho fatto tanti sacrifici per arrivare fin qui. Non potevo e non volevo regalarli a chi stava distruggendo tutto ciò in cui credevo. Alla fine, quindi, ho scelto di avviare un progetto mio insieme a un team indipendente, un gruppo di colleghi e colleghe appassionati, con storie professionali simili alla mia, anche se io sono il più anziano. Giornalisti, videomaker, fotografi, project manager, sviluppatori, esperti di piattaforme web, gente che ha fatto bene il proprio mestiere, ognuno nel suo campo. Persone con competenze tecniche altissime ma anche con una visione condivisa: mettere passione nel proprio lavoro e costruire qualcosa di bello, insieme.
Puoi raccontarci qualcosa in più di questo progetto?
La mia intenzione era di raccontare la crisi climatica con uno sguardo diverso rispetto a quello prevalente nei media di tutto il mondo. Non mi interessava seguire solo la cronaca dei disastri ambientali o descrivere scenari catastrofici ma raccontare cosa si sta facendo per rimediare a questa situazione e, possibilmente, per prevenire gli impatti futuri che saranno sempre più estremi. Questo approccio era noto da tempo all’interno della comunità scientifica ma anche 'intellettualmente' confinato, cioè impossibile da comprendere per il grande pubblico e per nulla comunicato: l’adattamento alla crisi climatica. In inglese climate change adaptation, una strategia che rappresenta l’altra faccia della medaglia delle azioni di mitigazione (climate change mitigation). Mentre la mitigazione consiste nel ridurre la quantità di gas serra che immettiamo nell’atmosfera, con l’obiettivo di arrivare alle emissioni nette zero (si tratta di strategie di lunghissimo periodo, dall’esito incerto), l’adattamento è una risposta più ‘rapida’ e concreta ai cambiamenti già in atto, quello che mi sembrava più urgente e giornalisticamente interessante raccontare. E questi cambiamenti vanno raccontati “on the road”, viaggiando, entrando nelle comunità, parlando con le persone, intervistando scienziati, ricercatori, chi sta progettando e mettendo in pratica soluzioni concrete.
Così è nato Adaptation.it, che non è un sito web, non è un portale, non è un magazine. È un web documentary. Abbiamo mutuato questo tipo di medium dal giornalismo americano: era esattamente lo strumento che serviva a me e ai colleghi per raccontare un’avventura o così significativa come quella dell’adattamento climatico. Un webdoc è qualcosa di completamente diverso da un sito web, è una piattaforma che integra diversi linguaggi dinamici per costruire una narrazione fruibile in modo modulare. La navigazione all’interno di questo spazio è pensata per essere armoniosa, quasi guidata: l’utente viene accompagnato passo dopo passo nello sviluppo del racconto. Inoltre, raccontare la crisi climatica con questa prospettiva ci ha portati ad abbracciare in pieno la filosofia del giornalismo costruttivo. Ecco perché, nel 2019, insieme ad alcuni colleghi, ho fondato il Constructive Network, che oggi conta oltre 200 tra i migliori giornalisti italiani. È un network che promuove l’approccio che in ambito internazionale è noto anche come solution journalism, cioè giornalismo delle soluzioni: proporre risposte possibili, fornire contesto e strumenti che bilancino – anche psicologicamente – la durezza delle notizie che raccontiamo.
A proposito di network, che peso hanno avuto le relazioni durante tutto il tuo percorso professionale? Ce ne sono state di particolarmente significative?
Una figura che ricordo con grandissimo affetto è Philipe Plailly, che ho già citato. È venuto a mancare una decina di anni fa: stava realizzando un servizio fotografico aereo (era un pioniere, prima ancora dell’uso dei droni) e purtroppo ha avuto un incidente mortale con un ultraleggero. Poi ci sono tre direttori di giornali che per me sono stati fondamentali. Il primo è Pino Aprile, storico direttore del settimanale Oggi, con cui ho lavorato a lungo durante il periodo in RCS. Con lui ho realizzato storie pazzesche per un giornale che veniva considerato la corazzata dei settimanali “per famiglie”. Pino, pugliese, meridionale e meridionalista convinto, un uomo di cultura vastissima, ha sempre creduto nella divulgazione scientifica anche su un settimanale generalista come Oggi. Mi ha aiutato a sfidare certi pregiudizi, anche da parte di colleghi freelance “puristi” della scienza, che magari mi dicevano: «Ma come, una storia così la dai a Oggi?» Sì, la do a Oggi, perché ho sempre pensato che la divulgazione scientifica non debba avere limiti. Portare la complessità a tutte le persone è la missione stessa di chi fa divulgazione, quindi sono orgoglioso di aver scritto anche per Oggi, Gente e altri settimanali fuori dal target strettamente scientifico. Un’altra persona della “scuola RCS” che voglio citare è Salvatore Giannella, storico direttore di Airone, un giornalista scientifico di razza: per me è stato una figura chiave. Poi c’è Pierluigi Vercesi, storico direttore di Sette del Corriere della Sera. Un altro uomo di cultura sterminata, bibliofilo, anzi di più, malato di libri. Abbiamo avuto discussioni incredibili nella sua stanza in via Solferino, a Milano. Un’altra persona che cito volentieri è Maurizio Menicucci, volto storico del TG Leonardo di Rai 3, oggi in pensione. Quando passo da Torino, ci vediamo sempre. Mi dispiace un po’ che ci sia poco equilibrio di genere tra queste figure, ma vengo da un giornalismo che era, e in parte è ancora, molto maschile.
Parlando sempre di persone, pensi che esista in Italia una comunità professionale di comunicatori della scienza? Senti di appartenervi?
Esistono diverse realtà associative per chi fa giornalismo scientifico in Italia. La più storica è sicuramente UGIS, Unione Giornalisti Scientifici Italiani, con sede a Torino. È un’associazione piuttosto istituzionale, di cui fanno parte tanti colleghi della vecchia generazione. L’altra, più recente, è la SWIM, Science Writers in Italy Milan, che ha base a Milano ed è affiliata alla Federazione Europea dei Giornalisti Scientifici. Personalmente ho fatto parte di SWIM e ne ho tratto grande vantaggio. Ma, se devo dire, non sono proprio tagliatissimo per questi contesti associativi. Nel senso che ho imparato che, per quanto possano essere utili per creare rete, spesso vi si innescano all’interno delle dinamiche strane, dei sottogruppi, piccole fazioni che non trovo produttive. Preferisco coltivare rapporti diretti con colleghi che stimo e con cui condivido interessi, senza necessariamente passare da una cornice associativa. Nel mio caso, i rapporti più solidi li ho con colleghi che si occupano di ambiente, clima, transizione energetica, economia circolare e biodiversità. Siamo una nicchia (forse una quindicina di persone in tutta Italia) di altissimo livello. Alcuni di loro vincono molti grant internazionali per progetti di giornalismo investigativo e realizzano inchieste straordinarie, spesso in collaborazione con redazioni estere. Questo tipo di giornalismo è fondamentale, oggi più che mai.
Al di fuori della rete giornalistica, ci si incontra spesso in eventi pubblici, festival, TEDx, oppure nell’ambito accademico. Come dicevo prima, da cinque anni insegno in un master di secondo livello del Politecnico di Torino su Climate Change, Adaptation and Mitigation Solutions, dove tengo il modulo sulla comunicazione e quello sulla rendicontazione di sostenibilità, tema sempre più centrale per le aziende. Parallelamente, da tre anni insegno anche all’Università di Siena, in un master di divulgazione scientifica, con un corso che si chiama Webdoc e Giornalismo digitale evoluto, tagliato sartorialmente sull’esperienza di Adaptation. Trovo che questo segmento formativo del mio lavoro sia fondamentale: trasferire le competenze accumulate sul campo è importante tanto quanto raccontare storie. E il fatto che le università italiane comincino a valorizzare la comunicazione della scienza come materia autonoma e strategica è un segnale molto positivo. In fondo, una rivoluzione culturale vera può iniziare solo dalla formazione.
Quindi, hai notato un cambiamento nella percezione che il pubblico ha della comunicazione della scienza e di chi se ne occupa professionalmente?
Sì, c’è stato un cambiamento molto importante e una parte fondamentale (non sto dicendo nulla di nuovo) l'hanno ricoperta i social media. Hanno generato due fenomeni distinti che oggi si integrano con il lavoro dei divulgatori scientifici professionali, anche se non sempre in modo costruttivo.
Da un lato, sono nati dei veri e propri influencer della scienza: profili o hub informativi che, oltre a fare buona divulgazione, portano avanti forme di advocacy su temi specifici. Si rivolgono a un target preciso e lo fanno in modo strategico e spesso molto efficace. Un esempio è Geopop, fondato da Andrea Moccia, oggi un punto di riferimento per la Generazione Z, una fascia d’età critica da coinvolgere, non certo disinteressata alla scienza, ma che noi, comunicatori di una generazione precedente, non riusciamo sempre a intercettare in modo ingaggiante e coinvolgente. Un altro esempio è il progetto Chi ha paura del buio? di Matteo Miluzio e colleghi, che ho avuto modo di conoscere durante dei seminari sulla comunicazione scientifica organizzati a Torino. Insieme a loro anche Greencome, un progetto molto attivo su Instagram, focalizzato su ambiente, clima ed ecologia. Uno dei loro format di maggiore impatto si chiama proprio “Ecoansia?”, un carosello settimanale con 7-8 notizie positive e documentate, per contrastare la narrazione tossica e paralizzante che spesso accompagna la crisi climatica. Sono tutti esempi di divulgazione costruttiva e di buon social influencing scientifico.
Il secondo cambiamento dovuto ai social è più radicale (e pericoloso): la disintermediazione. Oggi chiunque può pubblicare contenuti senza passare da media tradizionali. Questo ha dato voce a tanti cialtroni totali e incompetenti ma anche, direttamente, a chi prima doveva necessariamente affidarsi ai giornalisti e ai divulgatori: parlo di scienziati, medici, esperti, genetisti. Ormai molti di loro hanno collaborazioni fisse, scrivono editoriali, pubblicano sui social, diventano volti noti della tv. Abbiamo ben in mente quegli esperti che durante il Covid sono diventati figure pubbliche, spesso in conflitto tra loro. Questo ha evidenziato un problema serio: l’ego. Anche se il contenuto divulgato era tecnicamente corretto, il protagonismo di alcuni ha alimentato divisioni e polarizzazioni, contribuendo alla diffusione di fake news, alla nascita di complottismi e generando, inevitabilmente, un senso di sfiducia generalizzata. La differenza tra un divulgatore e un accademico che si improvvisa divulgatore sta tutta qui. Si parla oggi di era della post-accademia: l’accademico non si limita più alla ricerca, ma diventa personaggio pubblico. Va in TV, scrive sui giornali, viene interpellato per qualsiasi cosa. Ma quando esonda dal suo ruolo e si mette a fare il nostro lavoro, rischia di farlo male, se manca una cosa fondamentale: l’umiltà. Il nostro compito, quello dei divulgatori professionisti, è proprio fare da anticorpi all’ego degli esperti. Noi siamo i traduttori della complessità: forniamo contesto, verifichiamo, studiamo, ci prepariamo. Chi fa il nostro lavoro con scrupolo sa profilare l’interlocutore, studia l’argomento, costruisce un’intervista solida. Questo distingue il giornalismo di qualità dalla polarizzazione e dal servilismo, e il divulgatore professionale da chi non lo è. Se il divulgatore è serio, preparato e… curioso, ha ancora un ruolo fondamentale perché rappresenta il necessario diaframma tra la società civile e gli addetti ai lavori. Ma se così non è, allora sì, diventiamo inutili.